sabato 28 aprile 2012

La guerra è dichiarata


E’ appena uscita in Italia l’anteprima di un film speciale, realizzato con pochi mezzi e uno staff di dieci persone. Una pellicola francese presentata a Cannes lo scorso agosto. “Dichiarazione di Guerra” è il titolo arrabbiato di questa storia a mezz’aria tra incubo e favola, che sembra finta e invece è vera. Sembra parlare di morte e invece canta la vita con tutte le note.

La regista, Valérie Donzelli - che poi è anche attrice protagonista e oggetto di copione - per i nomi dei suoi personaggi osa un’acrobazia e saccheggia Bibbia, teatro e letteratura. Romeo, Juliette, Adam. Un padre e una madre, pazzi d’un amore senza pensieri, e il loro primo figlio a cui spetta un’avventura da primo uomo della terra. Una coppia innamorata ed entusiasta della vita e un bambino a cui un giorno scoprono al centro della testa quello che nel mio era al centro della pancia: un tumore maligno, inspiegabile e alieno.

Tutto cambia. Precipita, cade, finisce, sfinisce. Ed è questo passaggio di dimensione che il film di Valérie disegna, con grazia e coraggio, dolore e orgoglio, in ogni dettaglio.

Ci sono i primi sospetti della malattia: conati di vomito, un gonfiore sotto l’occhio, Adam che prova a camminare ma non si tiene in piedi. Ci sono le rassicurazioni delle maestre e del pediatra: tutto normale, non si preoccupi, ogni bambino è diverso, cresce a modo suo, va avanti come viene, ha i suoi tempi, la sua strada, passerà. Ci sono i primi accertamenti in ospedale: medici che entrano a gruppi, il tubo della flebo che sembra un guinzaglio, la spiegazione dell’anestesia, le analisi, le infermiere, porte che si aprono, chiudono, riaprono, portantini che vengono a prenderti, il lettino con le sbarre e le ruote che sembra una gabbia, tuo figlio dentro, tu che al posto di tenergli una mano ti aggrappi al ferro ghiacciato, il corridoio col pavimento verde acqua a quadroni di ogni ospedale, il cilindro d’acciaio della Tac. Silenzio, suono lungo e meccanico, luce rossa intermittente sul display. Respiro. Mal di pancia. Luce rossa, di nuovo. Ancora silenzio.

Poi la sentenza. La notizia che afferra la tua vita per i capelli, senza una ragione, la prende a calci – spezza le ossa, i progetti, i sogni – e la sbatte altrove. L’esplosione, i pezzi per terra, dolore fisico, terrore, vetri rotti ovunque. Transenne attorno all’incidente, attenzione, non entrare, non passare, non calpestare. Un agguato alle spalle, tu che vorresti arrenderti subito, perché sarebbe meglio finirla presto, in fondo. Non si sopporta, non ce la puoi fare. Poi invece cerchi il fiato, lo trovi, ti rialzi. E capisci che la guerra è dichiarata. E non si sfugge.

Ma la guerra si impara.

Si impara a sparare, quando c’è da difendersi. A fare le giuste domande, a scegliere senza condizionamenti, a non perdere tempo né sprecare il fiato. A coprirsi il cuore e la testa da tutto quello che vola basso e non serve. Si studia la strategia, si costruisce con pazienza un angolo con i cuscini, le lenzuola, le coperte e un beauty case per i giorni in trincea. Si organizzando le truppe. Si nominano i generali e i tenenti, a ognuno il suo posto.

E si risparmia l’acqua, ma si annaffia l’amore. Ci si tiene stretti mentre cadono le bombe. Nel frastuono si perde l'equilibrio, solo in due si resta in piedi. Si resiste, si parla, si pensa, ci si corregge e protegge. Si sopporta. Si aspetta la fine di un’operazione di dieci ore leggendo il giornale e bevendo il caffè.

In due si riesce a ridere per non soccombere, ci si dà il cambio in ospedale per non crollare, ci si divide le domande per i medici, si trova la forza di andare a una festa, una sera, anche se non c’è niente da festeggiare, niente da dire, da bere, da spiegare. Si è meno in pericolo, se si resta complici e indivisibili, dalla stessa parte, sopportando la tortura di restare per mesi davanti alla vetrata di un reparto di isolamento, accanto alla macchinetta del caffè che puzza di bruciato, a vedere la città che lontano ancora vive e si muove. Si perde il lavoro, e non importa. La carta di credito tagliata in due con le forbici perché il conto è a secco, e non importa. Morti e feriti sul campo, nel letto accanto al tuo, e non importa. Un figlio a letto a fare chemio a litri e non al parco, a scuola, dai nonni, sulle giostre. E non importa. Anzi importa, in realtà. Eccome. Ma importa molto di più resistergli accanto, senza franare, perché tanto finisce, non può durare in eterno. Finisce, la guerra. Finisce, sempre, prima o dopo.

Nel film, insieme a Valérie, ci sono Jerémie e Gabriel Elkaim. Nella vita sono il suo vero compagno e suo vero figlio. Insieme, sono reduci da un vero sequestro di tre anni e mezzo in un Regno di Op della Francia, che poi è forse il Regno di Op più importante e all’avanguardia d’Europa: l’Institut de cancérologie Gustave Roussy. La cartella clinica di Angelo è passata anche da lì, per un’importante consulenza, prima dell’operazione. Ed è da lì che passano le cartelle cliniche dei tumori infantili più rari, complessi e a prognosi infausta di tutta Europa.Ai medici del Gustave Roussy Valerie e Jeremie devono la vita del loro Gabriel, a cui, all’età di un anno e mezzo, era stato diagnosticato un tumore cerebrale rabdoide che, sulla carta, aveva il 10% di possibilità di guarigione. Oggi Gabriel di anni ne ha otto e i capelli a caschetto, sulle spalle. Come tutti i bambini della sua età ama Shrek, il Nintendo Ds, va alle elementari ed è il primo della classe in matematica.

Dichiarazione di guerra” racconta che tutto questo è successo davvero. Può succedere. E quando succede, di uscire in piedi da una guerra così,  vale la pena mandare indietro il nastro, raccontarlo a chi sta ancora sotto le granate. Può finire bene. Non lasciatevi morire, quando il cancro spara. Al centro della testa, del petto o della pancia. La vita è andata a nascondersi, ma magari dopo torna. Bisogna saper sopportare l’insopportabile. Bisogna saper aspettare.

Davanti allo schermo, si piange di pancia e si ride di cuore. Un film che è un inno alla vita, un invito alla resistenza, alla fiducia, all’ottimismo e alla lotta. Nanni Moretti e la Sacher lo distribuiranno in Italia a partire da giugno e promettono di tenerlo in sala almeno tutta l’estate. Cercatelo. Fatevi questo regalo, senza avere paura. Se non avessi scritto questo blog e qualcuno mi avesse chiesto qualcosa della mia storia, di come l’ho vissuta e di come mi sono sentita in questi mesi, avrei potuto tranquillamente rispondere regalando un dvd del film di Valérie. E se avessi saputo tradurre le mie parole in immagini, lo avrei fatto esattamente così.


domenica 8 aprile 2012

Una bella sorpresa


Oggi è Pasqua, ma poco importa. Almeno finché Michela non esce da terapia intensiva. Perché Michela io l'ho vista entrare lo scorso agosto, con le infradito ai piedi, il caschetto lungo le spalle, lo sguardo spaesato di chi passa in ambulanza da una spiaggia vicino Latina all'ultimo piano del Grande Ospedale e non sa bene perché. Ho aperto io la porta a vetri del reparto alla mamma e ai nonni quando sono arrivati con le valigie, poche ore prima di Ferragosto, balbettando rassicurazioni, battute e frasi fatte pur di alleviare la loro disperazione preventiva. Ho aspettato io con loro i risultati della Tac, giocando con Michela in corridoio, sperando che il nostro non fosse il suo posto, che quei dolori al centro del petto fossero un falso allarme dal facile rimedio. Ho portato io sua madre in terrazzo per un pianto liberatorio e un abbraccio lontano dagli occhi della piccola quando la diagnosi le ha spaccato il cuore e ribaltato l'esistenza. E' da allora che si va avanti insieme.

Michela ha un neuroblastoma metastatico. Diffuso, crudele. A otto anni ha dovuto sopportare cicli di chemioterapia senza sosta, radioterapia battente, antibiotici, cortisone. Giornate di alto isolamento, blindata nella sua stanza senza poter uscire. Trasfusioni, notti attaccata al saturimetro con il cuore affaticato e sfinito da ogni cosa. Inoperabile, avevano detto all'inizio. Aggettivo che alle orecchie di noi genitori suona sempre come definitivo, quando arriva come un proiettile alla schiena dai dottori, insieme alla diagnosi di un tumore maligno. E così lo confondiamo con una sentenza senza appello. E per fortuna, clamorosamente, sbagliamo.

Le chemioterapie hanno ridotto le lesioni di Michela e il Grande Ospedale ha chiamato dall'Ospedale dei Piccoli il chirurgo che ha tolto il drago dalla pancia di mio figlio. E gli ha chiesto di ripetere la magia con la sua inseparabile amica di avventure.

Ho saputo che Michela sarebbe andata sotto i ferri il giorno prima dell'intervento, mentre ero in day hospital a fare i prelievi di routine. Per caso, da un'altra mamma incontrata di rientro da un caffè.  "L'hanno appena ricoverata, scende in sala operatoria fra qualche ora". Sono rimasta pietrificata dalla gioia e dal terrore, finché non è passata davanti all'ascensore sua mamma e non ci siamo gettate le mani al collo, stringendoci in un abbraccio da fare male. "Abbiamo anche noi una possibilità", mi ha detto. Poi mi ha preso per mano, mi ha sussurrato "Facciamole una sorpresa, tirala un po' su perché piange da due ore dalla paura" e mi ha portato in stanza.

Mica piangeva, Michela. Stretta nel suo pigiama bianco e lilla, a braccia conserte come a proteggersi da sola, guardava i cartoni sdraiata sotto le lenzuola, in uno strano e composto silenzio. Assorta, concentrata come prima di un esame. Poi mi ha visto e mi ha sorriso. Le ho chiesto come stesse e ha preso a mordersi il labbro. "Ma lo sai che dopo l'intervento inizia la discesa e presto ce ne andiamo tutti da qui?", le ho detto prendendo a farle il solletico e sbacucchiandomela sulla testa, tutta piena di capelli corti e spinosi, appena ricresciuti grazie alla pausa chemio pre-operatoria. "Eh", m'ha detto. "Però ho paura lo stesso". Mica sono vigliacchi come noi, i bambini-soldato. La nominano, la paura. Senza lo stupido orgoglio di noi grandi a frenare la lingua. Senza problemi, senza vergogna. "Me lo dici tu come faccio a non avere paura?", mi ha chiesto sottovoce, abbassando lo sguardo e poi stringendomi la mano.

Non so bene perché, ho smesso di guardarla anch'io. E mi sono messa a guardare la sua flebo. Come a cercare una risposta da qualche parte, a chiedermi quale medicina miracolosa potesse convertire quella paura ingiusta e inevitabile in ottimismo, fiducia, coraggio, allegria. Ma il farmaco per la paura dei bambini di Op non esiste. Così ho dato un altro bacio a Michela, poi una stretta al braccio a sua mamma e suo papà e sono andata via.

E poi ho iniziato ad aspettare. Una telefonata, un cenno da qualche parte, qualcosa che mi dicesse che Michela aveva superato l'intervento e stava bene. Finché ieri il cellulare ha suonato e sua madre dall'altra parte mi ha detto quello che volevo sentire. Che le lesioni sono state tolte, che il chirurgo era contento, che qualche spiraglio di salvare davvero Michela si era aperto, finalmente, dopo mesi di fatica e sconforto. Certo adesso bisogna avere pazienza. E sperare, sperare forte.

Avremo pazienza, le ho detto. Che poi la Terapia Intensiva Pediatrica del Grande Ospedale la conoscono tutti, è un fiore all'occhiello, una cassaforte, il meglio che c'è per custodire i nostri figli speciali, restituirli alla vita senza fili e senza tubi. Ma noi in reparto senza Michela non sappiamo stare. C'è uno strano silenzio ora che manca lei davanti alla medicheria, col suo cellulare sempre acceso per fare le fotografie con le infermiere, o in ludoteca a spargere ovunque le banconote del Monopoli sul tavolo rosso. Bisogna dirlo ai medici della Tip che devono fare presto, a ridarcela. Io, intanto, l'uovo di Pasqua glie lo tengo da parte. Lo romperemo insieme, presto. E speriamo ci capiti, finalmente, una bella sorpresa.