venerdì 22 giugno 2012

I tre moschettieri e la caramella spaziale

Manuel, Stefano e Giorgio hanno molte cose in comune. Sono nati in mesi diversi dello stesso anno, il 2009. Vanno pazzi per il Fruttolo, la Nutella, i cartoni della Casa di Topolino che danno sul satellite e le costruzioni della Playmobil. Vengono da famiglie di provincia, di quelle che a Roma e più che mai nel Grande Ospedale si perdono un po'. Manuel è siciliano, della provincia di Palermo, anche se il papà lavora a Rieti da un paio di anni. La mamma di Stefano ha l'accento toscano, perché è nata all'Elba, e vive in campagna, nel viterbese. I genitori di Giorgio sono della provincia di Caserta, anche se abitano a Ostia, in un appartamento tra la pineta e il mare. Famiglie perbene, tutte. Bambini che fino a qualche mese fa salivano e scendevano dagli scivoli dei parchi, andavano all'asilo e si sporcavano le mani nella sabbia al mare.
Finché un giorno la loro infanzia uguale agli altri è finita, senza spiegazione. Hanno varcato la porta automatica del quarto piano del Grande Ospedale, sono saliti fino al decimo piano, hanno fatto tutta la trafila dei nostri bambini di cristallo: il ricovero, gli accertamenti, le Tac, l'aspirato midollare. Finché non è arrivata la sentenza: leucemia. Il tumore del sangue più comune di Op, quello che colpisce 3 bambini su 10. Quello che prevede le cure più lunghe, talvolta più dure: un protocollo di due anni, chemioterapici che ruotano, cambiano, fasi più dure di terapia ad alte dosi e periodi più sostenibili e sereni, cosiddetti "di mantenimento". Leucemia, il tumore che si beve il sangue e che toglie le forze, i bambini stanchi e svogliati che non vogliono mangiare, che non riescono a scendere dal letto.


Eppure oggi dalla leucemia si guarisce. Spesso, molto spesso, verrebbe da dire quasi sempre. Nove bambini leucemici su dieci tornano a casa da Op. Le famiglie sfinite, due anni di infanzia scippata e violentata, macerie e cocci rotti ovunque, una vita sottosopra da prendere e rifare daccapo. Ma se ne esce, dicono i numeri. Sempre di più. Grazie alle cure, ai farmaci, alla medicina che passano gli anni e non si ferma. Trova strade, percorsi, vie nuove, soluzioni.


Se ne esce anche grazie a un farmaco, che i genitori dei bambini leucemici conoscono bene. Si chiama Purinethol. Nome un po' spaziale, che è in realtà la sigla commerciale della mercaptopurina, un farmaco oncologico in commercio da più di dieci anni, ma ritenuto ancora molto efficace, soprattutto se  in combinazione con il Metrotexate. Farmaco che funziona, insomma, usato specialmente nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta, della leucemia mieloide acuta ma anche di un'altra importante patologia piuttosto diffusa fuori dai confini di Op che si chiama morbo di Chron. Nella fase di mantenimento i bambini più piccoli, come i tre moschettieri di Op, ne prendono mezza pasticca. Le madri di Op la chiamano "la caramella" e anche se ne conoscono a memoria il bugiardino e la lista degli effetti collaterali, hanno imparato a spezzarla in due in modo perfetto, appoggiandola sul tavolo e pigiando forte con l'indice destro e quello sinistro. Insieme. Un colpo secco. Come insegnano col sorriso le infermiere in medicheria. 


Il Purinethol, da due mesi, in Italia, non si trova. "Farmaco carente", dice una nota ufficiale dell'Aifa, l'Agenzia del farmaco, senza lasciare certezze ai genitori di Op che però, da protocollo,  hanno mesi di Purinethol davanti. "Arriverà, lo importeremo, risolveremo", rassicurano i medici di Op, abituati a spegnere incendi. Ma intanto i genitori, nel dubbio, hanno rastrellato le ultime scatolette in farmacia (15 euro per 25 pasticche) e così la carenza è diventata scarsità assoluta del farmaco. Che a Roma, per dire, non si trova nemmeno in Vaticano. Qualcuno ha chiamato amici e parenti farmacisti, qualcun altro ha scoperto che in Svizzera il Purinethol si trova, anche se costa 50 euro e non 15. E però la vita dei bambini non ha prezzo. Così si è messo in macchina ed è andato. 


Perché il Purinethol sia carente non è ancora cosa così chiara. Noi genitori di Op, si sa, siamo animali rari come i nostri figli. E le diagnosi di leucemie infantili, in Italia, sono meno di 500 l'anno. Troppo poche, evidentemente, perché la politica insorga, i giornali ne parlino e le farmacie organizzino manifestazioni agli angoli delle strade. Non c'è mercato: né in termini di euro, né di consenso da campagna elettorale. E dove non c'è mercato, c'è silenzio. 


E però a noi genitori di Op, e forse anche a tutti i cittadini con ancora un senso civico nelle tasche, piacerebbe sapere alcune cose, sulla caramella spaziale salvavita che serve a Manuel, Stefano, Giorgio e ad altre centinaia di moschettieri sparsi per i regni di Op di tutta Italia.


Ad esempio, cosa è davvero successo con la Laboratoires Genopharmes, l'azienda francese che aveva l'autorizzazione a commercializzare il Purinethol. In uno dei pochissimi articoli di stampa usciti sull'argomento (quello di Cristiana Pulcinelli su l'Unità di domenica 10 giugno) si legge che l'azienda ha cessato le sue attività e che a chiuderne i battenti sia stata l'Agenzia del farmaco francese, che aveva riscontrato alcune irregolarità sulla commercializzazione di un'altro chemioterapico (sarebbe interessante capire quale) di cui erano stati distribuiti dalla Laboratoires Genopharmes lotti scaduti, che l'azienda si sarebbe poi rifiutata di ritirare dal commercio una volta scoperto l'inghippo. Sembra evidente, da queste informazioni, che produzione e distribuzione del Purinethol, insomma, fossero in mani sbagliate. E dunque bene ha fatto l'Agenzia del farmaco d'oltralpe a ritirare l'autorizzazione. Ma adesso? Quanto ci vorrà per riassegnarla? In quali laboratori sarà prodotto il Purinethol? E in che tempi? E che succede alla distribuzione italiana, sul cui fronte sembra peraltro aperto un contenzioso tra le ditte Glaxo e Aspen per chi debba razionare quelli che sono evidentemente, da quel poco che si comprende, gli ultimi flaconi in circolazione? 


Nel frattempo, l'Aifa fa sapere che "non si può prevedere quanto durerà questa carenza". E però - buona notizia per le famiglie - autorizza in questi giorni l'importazione controllata del prodotto, con una limitazione importante: è certo che il farmaco non sarà più reperibile in farmacia, ma solo in distribuzione razionata in Asl e ospedali. 
La collega Manuela Campitelli, che ha un blog sul sito del Fatto Quotidiano ed è autrice di un altro rarissimo e prezioso articolo sul tema, avanza, però, un timore lecito e deprimente:  quello che dietro questa operazione, ci sia la volontà di ricontrattare il costo del farmaco con il ministero, visto che in Italia il Purinethol si trova a prezzi inferiori rispetto al resto d’Europa. 
Sarebbe interessante capire cosa pensa il Ministero della Salute di questa vicenda, la cui voce si distingue per l'assordante silenzio, nonostante un'interrogazione parlamentare pendente della parlamentare Pd Luciana Pedoto, unico deputato su oltre mille parlamentari della Repubblica ad essersi occupata del caso. Con un avvertimento, però. E cioè che il signor Ministro si prepari bene, prima di prendere parola sulla questione, perché noi genitori di Op abbiamo smesso da tempo di credere alle favole, anche se ai nostri moschettieri invincibili non intendiamo smettere di raccontarle.

domenica 10 giugno 2012

Un pomeriggio insieme nel Grande Ospedale


Domani, nel Grande Ospedale, succede una cosa. E' una cosa bella, ma per certi versi difficile e delicata per chi scrive questo blog e per chi vive quello che in questo blog è scritto.

Da qualche settimana siamo passati dalla Rete alla carta. Dal blog a un piccolo libro pubblicato dalle edizioni la meridiana che raccoglie gli appunti di viaggio che abbiamo condiviso in questi mesi dolenti e cruciali per la nostra famiglia e per le molte altre incrociate lungo il nostro cammino.

Domani un altro passaggio ancora. Dalla carta agli occhi, provando davvero a incrociare le vite e gli sguardi. Presentiamo il libro, a Roma, al Policlinico Gemelli che in questi mesi ci ha accolto ed è stato per noi una seconda casa.  Proviamo a tenerci stretti, un attimo, e a spiegare bene perché.

Perché un blog così. Perché un libro. Perché smettere di nascondere la malattia e mettersi a parlarne, a condividerla, a spezzare il tabù che accompagna sempre chi è malato di tumore e che si fa spavento quando il tumore invade lo spazio obbligatoriamente felice e incontaminato dell'infanzia.

Domani ci proviamo. Tutti insieme, contro la vergogna della malattia, in uno spazio come quello ospedaliero che non è solo luogo di sofferenza, isolamento e costrizione ma anche di incontro, relazione e cura.

Nostro figlio non ci sarà, in questa come in tutte le altre presentazioni del libro. Resterà con i nonni, se ne andrà a giocare al parco o a prendere l'aria buona al mare. Non è lui il punto di quello che abbiamo da dirci. Il blog e il libro non raccontano la sua storia. Partono da lì, è vero, ma per incrociarne molte altre e provare a raccontare quello che succede, ogni anno, in 1500 famiglie italiane costrette a traslocare, senza scelta e senza preavviso, dalla loro vita di sempre al regno di Op.

Ci saranno, invece, Concita De Gregorio, che ha curato con amore e generosità l'editing del libro e ne ha scritto l'introduzione, Carolina Crescentini, che da giorni con serietà e partecipazione prepara un reading di alcuni brani del libro e il prof. Riccardo Riccardi, direttore della Divisione di Oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli.

Se siete a Roma o nei dintorni, vi aspettiamo.

venerdì 1 giugno 2012

Recensione di parte di un film speciale. Per Valérie.

Esci, una sera, e vai a ballare. Lo vedi, lui vede te. Esplode un amore pulsante e senza pensieri che inizia a rotolare sui marciapiedi e sotto le lenzuola. Ne nasce un figlio che come tutti i figli del mondo profuma di promesse e futuro. Che all'inizio ti mette l'esistenza a soqquadro e poi lentamente inizia a colorare l'aria. Dorme tra te e suo padre nel letto, fa il bagno nudo nella vasca e fa schizzare con i piedi l'acqua e il sapone. La vita che volevi è arrivata. Si incastra ai progetti di ieri e domani, scivola leggera e ha un buon sapore. Finché un giorno quel figlio smette di mangiare. Vomita, non si tiene bene in piedi anche se dovrebbe già camminare. Ha un occhio che sembra bloccato e non segue più le cose. Starà bene, ti ripeti. Certo che starà bene, ti ripetono tutti. Ma poi all'asilo se ne sta appoggiato al muro, in disparte. Smette di sorridere, vomita ancora. E allora chiami il pediatra per capirne di più. “Serve una Tac, bisogna correre in ospedale”. E tu non hai nemmeno il tempo di preparare la valigia, di accorgerti che la prima parte della tua vita si è dissolta in un istante. Sei già altrove. Sul fronte. Tra lettini con le sbarre, flebo, medici e infermieri, pianti di bambini in sottofondo a martellare i pensieri. A casa, a tinteggiare la pareti di fresco con il rullo e la vernice, non si torna. Senza scelta e senza colpa il posto adesso è la trincea. Senza scelta e senza colpa, la guerra è dichiarata.

Si chiama così il secondo film di Valérie Donzelli (il primo tradotto in italiano), che ha incantato il pubblico di Cannes un anno fa e candidato agli Oscar 2012 per la Francia come miglior film straniero. Da ieri arriva in trenta sale italiane, per volontà ostinata e contraria della Sacher film di Nanni Moretti, che mentre fuori è già estate lancia una pellicola dolente e spregiudicata, che racconta di due giovani genitori e del tumore al cervello di loro figlio di 18 mesi. Nel film, insieme a Valérie Donzelli, ci sono Jérémie Elkaïm, il suo ex compagno, e Gabriel, loro figlio. Insieme, sono reduci da un vero sequestro di tre anni e mezzo in un reparto di oncologia pediatrica della Francia. Vero intervento al cervello, vero reparto di isolamento, vera camera sterile, veri litri di chemioterapia, per curare Gabriel, a cui, all’età di un anno e mezzo, era stato diagnosticato un tumore cerebrale rabdoide che, sulla carta, aveva il 10% di possibilità di guarigione. Ma oggi Gabriel di anni ne ha otto e i capelli a caschetto, sulle spalle. Come tutti i bambini della sua età ama Shrek, il Nintendo Ds, va alle elementari ed è il primo della classe in matematica.

La guerra è dichiarata racconta una cosa di cui nessuno parla mai: il cancro dei bambini e quello che succede nelle famiglie che devono affrontarlo. Che solo in Italia sono 1500 all'anno. Lo fa nel modo in cui non t'aspetti. Senza indugiare sulla malattia e sul dolore dei bambini, ma scegliendo di scommettere sul punto di vista dei genitori e sulla loro testarda resistenza al dolore, alla fatica e alla disperazione. Sulla loro capacità di reagire e rispondere colpo su colpo alla rassegnazione e allo sgomento. Mantenere il controllo senza perdere la testa. E salvare l'amore per la vita. La fiducia, la speranza di farcela. Perché i tumori infantili, anche se non dovrebbero esistere, non sono una condanna a morte e perché dai tumori infantili, come è successo al figlio di Valérie, dopo cure lunghissime e sfinenti, si può guarire.

La fusione tra poesia e azione è perfetta. E l'equilibrio incredibile tra incubo e favola si mantiene sempre, per incanto. In alcuni momenti, c'è qualche punta manierista, quasi barocca. Una voce fuori campo che spesso non serve; una canzone d'amore a frenare di botto il precipitare degli eventi subito dopo la notizia; uno zoom da mal di testa che accompagna l'incontro tra i genitori e il neurochirurgo; la scelta stessa dei nomi dei protagonisti carichi di un misticismo primordiale e forse eccessivo: Romeo, Giulietta, Adamo. Ma sono dettagli che si lasciano perdonare. Anzi rimarcano l'energia di una regia spregiudicata e quasi libertaria, che si accompagna a una colonna sonora altrettanto sorprendente, che alterna le stoccate di violino al punk-ska, le ballate voce e chitarra alla techno-house. 

Alcuni dei cinema in cui trovarlo: a Roma Nuovo Sacher, Mignon e Cineland; a Milano Eliseo Multisala, Anteo Spaziocinema; a Torino Nazionale; a Bari Il Piccolo; a Genova City; a Cagliari Greenwich d'Essay; a Firenze Fiorella Atelier; a Napoli Delle Palme