La storia che ho l'urgenza di raccontare stasera mi arriva in una mail, come un segreto, molti giorni fa. Molti giorni fa, però, io avevo iniziato il mio nuovo lavoro, il primo lavoro della mia seconda vita, il primo da quando siamo tornati a casa dal Regno di Op. E così è finita che quella mail, per distrazione, fretta e disavventura io non l'abbia aperta. Fino a pochi minuti fa.
Poi l'ho aperta e ho letto la storia.
Non so bene di che regno sia questa storia. La ospitiamo in questo, speriamo solo per un po', perché è una storia di malattia che non ha nome e non ha casa.
E' la storia di Marianna, che ha quarantacinque anni e fa la bibliotecaria in un pezzo di Puglia che si chiama Terlizzi. Più precisamente, è la storia di sua figlia, che di anni ne ha sedici. E' la storia della sua febbre, orfana di un nome e di un perché.
La figlia di Marianna aveva 13 anni e stava finendo la terza media, quando questa storia è cominciata. Febbre alta, altissima, improvvisa. Quarantuno, anche quarantadue.
Pronto soccorso, medicine, flebo. Ma poi di nuovo: febbre alta, improvvisa. Febbre da impazzire.
La febbre va e viene, senza logica, senza cadenza regolare. Si alterna in modo confuso a stati di assoluta normalità. Poi, da niente, sale. Libera brividi e bollore, paura e confusione. Questo ottovolante tremendo e incomprensibile va avanti da tre anni, senza sosta, senza spiegazione e senza soluzione.
Una volta le hanno detto che forse era una violenta allergia a dei funghi presenti in casa. Allora Marianna e suo marito hanno cambiato casa. Sono andati a vivere in una villa, l'hanno ripulita da ogni possibile pericolo per la ragazza. Non è servito a niente. La febbre è tornata. Come un destino, l'ombra di qualcosa che non si riesce a capire nè vedere.
Ricoveri, esami di ogni tipo, alcuni molto costosi e non rimborsabili dalla Asl perché non si rimborsa una cosa che non ha un nome. Viaggi per l'Italia, momenti di disperazione, paura di morire. Ma anche tentativi, incredibili, radiosi di normalità. La figlia di Marianna fa il liceo classico, per dire. Frequenta le lezioni al computer, va a scuola quando può, per i compiti in classe e le interrogazioni. Sua madre è l'anima di una piccola biblioteca che, dicono, da quando c'è lei, funziona come la succursale di un qualche stato svedese. Aggrega associazioni, scuole, studenti, anziani attorno ai libri, alle pagine, ai racconti, mentre il resto del mondo perde il suo tempo davanti alla tv.
So che Marianna e sua figlia hanno letto il mio libro e passano da questo blog, qualche volta. So che ne hanno tratto un misterioso conforto e questo mi ha riempito di emozione e anche un po' di paura.
Non so bene cosa posso fare per loro. Non so bene cosa dire a questa ragazza, costretta a una vita sotto sequestro di qualcosa che arriva come un inganno e le stringe la gola.
So però che questa famiglia è un esempio. Di resistenza, di amore per questo mondo, di mancata resa alla rabbia e alla rassegnazione. So che questa famiglia è una delle tante famiglie ostaggio di una malattia orfana: di diagnosi, di etichetta, di cure.
Forse qualcuno, passando da qua, ha una storia simile. Forse da qualche parte c'è qualcuno che ha attraversato un labirinto del genere e poi ha trovato una porta d'uscita e può scriverci, dire anche a noi come si fa, così noi lo raccontiamo a Marianna e a sua figlia, liberando questa principessa adolescente dal suo castello di fuoco.
Sarebbe bellissimo, incredibile e insperato.
Intanto prendiamo appunti, da questa storia e da questa vita. Per stringerci a questa resistenza esemplare, trarne coraggio e forza. E per non sprecare tutta la libertà che abbiamo noi altri, con i nostri 36.5, le nostre uscite serali, la domenica al parco, le riunioni di lavoro che non finiscono mai e non ci danno nemmeno il tempo, a volte, di leggere le mail.

domenica 11 novembre 2012
Ted Talk sul Regno di Op: il testo dell'intervento
Mio figlio ha 19 mesi. E ha una cicatrice sul cuore. Non è una metafora. Non è letteratura. Non è un modo ad effetto per iniziare questo discorso. Mio figlio questa cicatrice sul cuore ce l'ha davvero. È fatta da tre punti, disposti a triangolo. L'estremità superiore del triangolo è quel che resta di un piccolo foro. Invece i punti sotto sembrano delle piccole bacchette, di mezzo centimetro l'una. Parallele.
Su quel triangolo, fino al giugno scorso, era appoggiato il suo cvc. Cvc è una parola che le madri non dovrebbero imparare mai. Io però l'ho imparata molto presto. L'ho imparata che ero madre, per la prima volta, da poche settimane. Cvc significa catetere venoso centrale. È una specie di coda di plastica
azzurra, cucita sul petto dei bambini che devono fare chemioterapia. A mio figlio questa coda azzurra sul petto è spuntata che aveva compiuto due mesi da poco.
Era successo che una mattina, come spesso facevo da quando era arrivato, l'ho portato al consultorio familiare che c'era di fronte a casa mia, nella periferia di Roma. Avevo iniziato a frequentare quel consultorio poche;settimane prima del parto. Più per la sua posizione che per altro. Attraversavo
la strada e ce l'avevo di fronte. Era il posto più comodo dove fare il corso prenascita. E così ci sono andata, senza molte aspettative o pretese. Prima di allora i nostri consultori pubblici non sapevo nemmeno esattamente cosa fossero, cosa ci si facesse dentro a parte pap test o interruzioni di
gravidanza. Ce li raccontiamo un po' così, i consultori. Anche a sinistra. E sbagliamo.
In quel consultorio ho conosciuto un'ostetrica. Ha più o meno la mia età, si chiama Chiara ed è la mia ostetrica salvavita. Mi ha seguito prima del parto, con grande serenità. E quando Angelo è nato – mio figlio si chiama Angelo si sono scelti all'istante. Chiara una volta a settimana, insieme alle sue
colleghe gestiva uno spazio in quel consultorio, dedicato alle mamme che avevano fatto il corso preparto. Si stava lì, si parlava, si imparava ad allattare al seno e ci si abituava all'idea di essere entrati in una nuova vita, fatta di pannolini, biberon, poppate, notti senza sonno. Era tutto nuovo, incredibile
eppure così straordinariamente normale. E io mi sentivo più o meno così: in una vita nuova, incredibile e straordinariamente normale.
Finché Angelo non ha iniziato a piangere un po' più spesso. Poi a vomitare più spesso. E poi a perdere peso. E una mattina Chiara mi ha preso da parte. Lei teneva il peso di Angelo su una specie di tesserina. Lì in quel consultorio pubblico di periferia -uno di quelli che nel Lazio la signora Renata Polverini
voleva chiudere con i sigilli – erano moto più precisi che dal pediatra a pagamento. “Devi andare a fare un'ecografia. Forse Angelo ha una stenosi del piloro. O qualcosa alla pancia. Io farei un'ecografia”, mi ha detto. Era la fine di maggio, fuori c'era il sole, io ero una delle persone più felici della faccia della terra. Non mi mancava niente. Quell'ecografia era solo un puntino in mezzo a tutta quella felicità.
E così andai a farla il pomeriggio stesso. Nell'intento, più che altro, di cancellare quel puntino. Ma fu lui a cancellare tutto il resto. Non era un puntino. Fu subito chiaro appena un ecografista sconosciuto con i baffi neri e folti appoggiò la sonda sulla pancia di Angelo. Poi la sollevò di botto e si mise
le mani nei capelli. “E' una massa di otto centimetri e mezzo, dovete scappare al pronto soccorso”, disse a me e al mio compagno, Marco. E noi scappammo al Policlinico Gemelli, dove Angelo era nato poche settimane prima.
Molte persone mi chiedono com'é stato quel momento. La sensazione fu quella di un incidente. Di uno schianto sul guardrail. Solo che non ci trovammo ribaltati sull'asfalto, ma sbattuti -senza scelta e senza preavviso in una stanza con un letto, un tavolo, un piccolo frigorifero, un bagno al decimo piano di quel Grande Ospedale. Il decimo piano. L'ultimo, il più nascosto. Quello dove nessun bambino, se ci fosse una qualche logica nelle cose, dovrebbe finire mai. Quello del reparto di oncologia pediatrica, un posto
così impronunciabile che io ho preso a chiamare in un modo tutto mio e che ancora oggi, per me, è il regno di Op.
E lì, nel regno di Op, tutto ha iniziato a rotolare veloce. Abbiamo preso a firmare consensi informati su qualunque cosa. Tac, risonanze, trasfusioni, biopsie. La diagnosi è arrivata molto presto. Senza sconti: fibrosarcoma addominale. Un raro tumore alla pancia, impossibile da prevedere e da spiegare. Era lì, comunque. E sembrava una condanna a morte, una sentenza senza appello.
E allora di colpo si è spento l'interruttore sulla vita che io e il Marco avevamo costruito, immaginato e sognato negli ultimi 12 anni insieme. All'aria tutti i fogli con sopra i nostri progetti, disegnati insieme con il righello e con il compasso, come fanno in fondo tutte le coppie del mondo. L'estate al mare
con i nonni, l'inserimento all'asilo nido, le gite al parco con i figli degli amici. Tutto finito, di colpo. E una scritta, improvvisa, a lampeggiarci davanti: nostro figlio, appena nato, poteva già morire.
Le chemio sono iniziate quasi subito. Le infermiere entravano in stanza portando delle enormi siringhe senza ago. Siringhe giganti, di plastica, avvolte nella carta argentata, quella che si usa per coprire la lasagna in forno, la domenica. La stessa, identica carta argentata. Le agganciavano alla codina azzurra, avvitandole all'estremità del cvc, e poi spingevano piano piano il pistone. Tu pensavi solo: perché non a me, che magari posso sopportarlo? Perché a mio figlio? Proprio a mio figlio?
Per fare tutto questo le infermiere indossavano questi guanti azzurri. I bambini del Regno di Op li adorano, i guanti azzurri delle infermiere. Li chiamano "i guanti dei Puffi", perché sono proprio di quel colore. Color puffo. Noi grandi invece invece appena vediamo i guanti azzurri ci facciamo scuri in volto, perché sappiamo che sono i guanti usati per le chemioterapie. Guanti altamente isolanti, che anche i genitori devono indossare poi, per 24-48 ore dopo le chemio dei figli, per lavarli o per cambiare il pannolino. Mi facevano paura, i guanti dei puffi, quando abitavo nel Regno di Op. Mi ricordavano che ero in un campo minato, in cui era pericoloso anche toccare le cose. In cui dovevo proteggermi anche dalla pelle di mio figlio. E questo è stato molto difficile da accettare.
Poi ci fai pace, con le chemioterapie. La paura la perdi. Diventi bravo a chiuderla in un armadio e a buttare la chiave. Sorridi alle infermiere che entrano in stanza con in mano le siringhe giganti. Gli vuoi bene, a quelle siringhe. Con dentro i veleni salvavita che ti restituiranno tuo figlio. Fanno bene a coprirle con la carta argentata, a proteggerle, a usare i guanti dei puffi.
Ci fai pace perché lentamente impari che un tumore di 8 centimetri si può sciogliere come ghiacchio. E che il Regno di Op non è un braccio della morte, ma un posto dove si possono guarire i bambini e dove forse con un po' di pazienza, un po' di fortuna, guarirà anche il tuo di bambino. Non tutti ce la fanno. Ci sono, a volte, delle sere in corridoio, che noi chiamiamo “le sere delle stanze chiuse”. Le infermiere passano e ti chiedono di chiudere la porta della stanza. E lì capisci che qualcuno non ce l'ha fatta. E ogni volta ti si rompe qualcosa. Però sette bambini su dieci escono da lì e campano cent'anni. Nove su dieci nei casi delle leucemie. Bisogna concentrarsi su questo. C'é una via d'uscita, proprio come dal Regno di Oz. Dopo l'uragano, in qualche modo, si può tornare a casa.
Se ti concentri su questo, succede una cosa bellissima. Succede che la smetti di startene chiuso tutto il giorno in camera, come se fossi in prigione. Succede che prendi tuo figlio in braccio, con l'altra mano spingi il treppiedi di ferro con le ruote sotto e la flebo sopra e ti vai a fare un giro in corridoio, a conoscere le altre persone che hanno fatto il tuo stesso incidente e si sono schiantate sul tuo stesso guardrail ma che come te stanno provando a sciogliere il ghiaccio che abita nel corpo dei loro figli.
Succede che ti metti a giocare a Monopoli in ludoteca con gli altri bambini soldato, che però a parte le teste rasate restano bambini uguali a tutti gli altri. Anche quando sono malati: restano prima di tutto bambini. E allora ti metti a cucinare i pop corn per loro con le infermiere, a guardare i cartoni, a giocare con la play station, a bere caffè con le altre famiglie con cui magari devi dividere la stanza. A parlare con i medici, senza lasciarti spaventare dal camice bianco.
Sono incredibili, i medici del regno di Op, che scelgono ogni giorno l'inferno, cercando di spegnerne l'incendio, come fossero pompieri. Noi ci capitiamo per uno strano caso, in quel decimo piano del Grande Ospedale. Loro scelgono di stare lì, ogni giorno. E io dico sempre che dovremmo farlo un applauso ai pompieri. E dovremmo spiegarlo ai bambini chi sono questi signori che entrano in stanza ogni mattina, gli tirano su il pigiama per toccare la pancia e sentire il torace, li fissano sempre a lungo, come a cercare qualcosa. Una risposta, un segreto. E qualche volta ce la fanno, giuro. Li ho visti con i miei occhi. Ce la fanno a trovare la chiave per liberare i bambini dal regno di Op, rimandarli a casa, a scuola, al catechismo, a giocare a calcetto e al campeggio con gli scout. Dal regno di Op si esce, dicevamo, e se si esce è perché sono stati loro a inventarsi qualcosa.
Comunque, a un certo punto, succede che nel Regno di Op va meglio. Va meglio, quando tiri su la saracinesca che avevi abbassato con tutto il resto del mondo, convinto che chiuderti nel tuo dolore potesse proteggerti.
Va meglio, soprattutto, quando smetti di vergognarti di farne parte. Di essere raro. Genitore di un bambino raro. Un aggettivo che ti perseguita dall'inizio, uno strano marchio a fuoco che impari a sopportare tuo malgrado. Perché essere rari è una bella responsabilità. Essere genitore di un bambino raro ancora di più.
Solo che 1500 bambini rari all'anno, se li metti insieme, si sentono meno rari e meno soli. Allora ecco una cosa intelligente, utile da fare, ho pensato a un certo punto. Smettere di vergognarsi della malattia dei nostri figli. Uscire da questo strano disagio. E da questo apartheid. Fare outing. Senza esibire la
malattia, ma parlandone, raccontandola e spezzando il tabù che la circonda, soprattutto quando la contamina il terreno della felicità obbligatoria dell'infanzia. L'infanzia di plastica propagandata dalle pubblicità della Chicco che però qualcuno aveva vietato ai nostri figli.
Bisognava raccontarli, i nostri figli. Senza paura e senza fare paura. Tirarli fuori in qualche modo dalla riserva indiana di quell'ultimo piano nascosto del Grande Ospedale da cui non potevano uscire e in cui non poteva entrare nessuno senza mascherina. Quel necessario isolamento fisico non poteva, non doveva tradursi in isolamento sociale e noi genitori potevamo fare qualcosa per uscire da quella linea gialla del parcheggio invalidi dove avevano confinato noi e i nostri bambini.
Invalidi civili minori, sono tecnicamente i bambini oncologici. Ma invalidità è una parola tremenda. Bisognava dimostrare in qualche modo che i nostri figli erano e sono validi a stare in questa società. Dentro e non ai margini. È per questo che ho aperto un blog sul Regno di Op e poi ho accettato che diventasse un libro. Un diario dei nostri mesi in trincea. Che raccontasse dei bambini e dei ragazzi che abbiamo incontrato, del lavoro incredibile dei medici, delle infermiere, delle altre famiglie...
Perché attraverso le parole si potesse conoscere anche questa infanzia. Perché si potesse violare virtualmente l'orario delle visite. Perché si potesse parlare pubblicamente dei nostri ospedali pubblici e di quello che di incredibile accade dentro. Perché si potesse raccontare che ci sono genitori costretti a trasferirsi dal sud al nord per curare al meglio i propri figli, e non è giusto. Perché si potesse dire che per curare i propri figli alcuni genitori devono lasciare, oltre alla propria città, anche il proprio lavoro. E meritano di non restare soli. Meritano assistenza, servizi sociali pubblici e gratuiti come
case accoglienza e assegni di sostegno.
Perché si potesse dire che c'é un farmaco usato nella terapia di mantenimento della leucemia. Si chiama Purinethol, é un farmaco salvavita ed e' stato carente in Italia per 5 mesi, per tutta l'estate. Ora va meglio, ma per 5 mesi le famiglie non lo trovavano e per la paura di restare senza si mettevano in macchina e andavano a comprarlo in Svizzera, oltre il confine, pagando una scatoletta per tre volte il suo prezzo. E la nostra politica, il nostro ministro alla Salute non hanno saputo evitare tutto questo. L'angoscia, l'incertezza, i viaggi della speranza in nome del diritto alla cura.
Il blog sul Regno di Op ha superato le 100 mila visite, é diventato lo spazio in cui una comunità -quella delle famiglie dei bambini oncologici -si ritrova, si tiene stretta ma soprattutto cerca il contatto con l'esterno, senza paura di toccarne la pelle e di farsi toccare. Senza guanti di plastica. Perché non esiste una separazione tra la società dei sani e quella dei malati. Cosi' come non esiste una separazione tra nord e sud, italiani e stranieri, ricchi e poveri. Siamo tutti validi a stare in questo mondo. Nessuno escluso.
Concludo dicendovi che mio figlio ha fatto 7 cicli di chemio e ha subito un intervento che ha riaperto la sua partita con la vita. Non è guarito. Ci vorranno cinque anni per dire se davvero sta bene. Ma intanto sta bene. Ha tolto il cvc, non fa più le siringhe nella carta argentata, non vive più in un reparto di isolamento, può vedere altri bambini e presto come tutti gli altri bambini andrà all'asilo.
Anche io e Marco stiamo abbastanza bene. Ci siamo sposati. Siamo tornati a lavorare. E ci sono dei giorni in cui riusciamo a dimenticarci di tutta questa storia e a sentirci una famiglia normale. Ma io non smetterò mai di raccontarla, la nostra trasferta nel Regno di Op. Perché ho imparato che il dolore non va mai rimosso, nè sprecato. Esiste sempre un punto di leva per ribaltarlo, il dolore, e trasformarlo in qualcos'altro. E il mio dolore è al servizio di tutte le 1500 famiglie di bambini oncologici che ogni anno, in Italia, vanno avanti a denti stretti e chiedono servizi, diritti e ascolto.
martedì 30 ottobre 2012
Il video del mio Ted Talk
E' molto importante, per me, proteggere questo spazio. Che è uno spazio di parole che incontrano altre parole. E non di facce. Nè di immagini in movimento. Non voglio sporcare questo blog con i suoni e i rumori. Mi piacerebbe che rimanesse una stanza in cui ogni incontro sia sufficientemente intimo e protetto.
Faccio, però, un'eccezione.
E vi propongo di dare un'occhiata a un video in cui racconto la storia di questo blog.
E' il video del mio Ted Talk a Reggio Emilia.
Credo che parli di noi.
Del perché ci troviamo qui, ogni tanto.
E quindi non ho ragione di nascondervi il mio volto e la mia voce.
Non questa volta.
Faccio, però, un'eccezione.
E vi propongo di dare un'occhiata a un video in cui racconto la storia di questo blog.
E' il video del mio Ted Talk a Reggio Emilia.
Credo che parli di noi.
Del perché ci troviamo qui, ogni tanto.
E quindi non ho ragione di nascondervi il mio volto e la mia voce.
Non questa volta.
venerdì 19 ottobre 2012
Il regno di Op sul palco dei Ted Talk Italia
Quando ho aperto questo blog era una vita fa. Un'altra vita, che ha cambiato la mia vita. Si è presa la mia leggerezza, ma mi ha restituito una forza che non sospettavo nemmeno di avere.
Quando ho aperto questo blog era un momento in cui volevo spezzare l'isolamento in cui la malattia di mio figlio mi aveva fatto scivolare. Volevo alzare la saracinesca del mio dolore. Raccontare la mia storia, le nostre storie. Volevo mostrare a tutti la bellezza dei nostri bambini, trascinare loro, noi famiglie, le infermiere, i medici lontano dal tabù che ci voleva nascosti all'ultimo piano del Grande Ospedale perché quello che ogni giorno faceva parte della nostra vita poteva spaventare la vita degli altri.
Quando ho aperto questo blog era un momento in cui volevo liberarmi della vergogna della malattia dei nostri figli. Volevo uscire dalla nostra riserva indiana e provare a contagiare della nostra voglia di vivere il mondo.
Quando ho aperto questo blog era un momento in cui volevo spezzare l'isolamento in cui la malattia di mio figlio mi aveva fatto scivolare. Volevo alzare la saracinesca del mio dolore. Raccontare la mia storia, le nostre storie. Volevo mostrare a tutti la bellezza dei nostri bambini, trascinare loro, noi famiglie, le infermiere, i medici lontano dal tabù che ci voleva nascosti all'ultimo piano del Grande Ospedale perché quello che ogni giorno faceva parte della nostra vita poteva spaventare la vita degli altri.
Quando ho aperto questo blog era un momento in cui volevo liberarmi della vergogna della malattia dei nostri figli. Volevo uscire dalla nostra riserva indiana e provare a contagiare della nostra voglia di vivere il mondo.
Quando ho aperto questo blog pensavo, però, che fosse solo un blog. Un blocco di appunti appoggiato sul muretto del web, aperto alla lettura dei passanti della rete o della piccola comunità dei 1500 passanti all'anno che popolano i Regni di Op di tutta Italia.
Mai avrei pensato che, insieme agli amici delle edizioni la meridiana, ne avrei fatto un libro.
Mai avrei pensato che sarei finita a parlarne nelle piazze di mezza Italia, con le associazioni, i politici, i lettori, le altre famiglie. Ma soprattutto mai e poi mai avrei pensato che sarei finita sul palco di un teatro a parlarne.
Domani succede. Alle 1430 sarò a Reggio Emilia, al Centro Internazionale Loris Malaguzzi, per la seconda edizione dei TedX Italia. Avrò 18 minuti per parlare di tutto quello che ci siamo detti qui in questi mesi interminabili e incredibili. Per provare a mettere a disposizione il tentativo mio e della mia famiglia di resistere al dolore e tradurlo in battaglia comune e collettiva a favore di una nuova sensibilità nei confronti dei bambini affetti da tumore infantile e delle loro famiglie.
Proverò ancora a usare le mie parole senza paura e senza fare paura a nessuno.
Se vi va di seguire il mio Ted Talk in diretta potete farlo qui.
mercoledì 15 agosto 2012
La democrazia del cocomero
Mi ricordo che Angelo non faceva nemmeno piu' terapia, perché stava così male che i medici si erano fermati. Una specie di pausa di riflessione, per provare a capire se una via d'uscita esisteva o se bisognava iniziare ad abituarsi all'idea di mollare la presa. Mi ricordo che avevo smesso di comprargli i vestiti per i mesi successivi. Anche il nostro armadio viveva come tutta la famiglia: alla giornata, seguendo gli eventi senza troppa convinzione, senza pensare alle stagioni che venivano, ai mesi che si davano il cambio sul calendario e noi che nemmeno che ce ne accorgevamo.
Mi ricordo che, come in tutti i giorni di festa, nel Regno di Op provavano a farci dimenticare che la vita di tutti ci aveva escluso per ragioni impossibili da cogliere e per un tempo che non era dato sapere. E mi ricordo che dappertutto c'era un gran da fare. Mi ricordo che i portantini passavano per le stanze a rassicurarci sul vitto in arrivo a mezzogiorno: "Sembra che arrivino le tagliatelle al ragù, l'arrosto e le patate al forno", ripetevano a noi quattro gatti reclusi in reparto. "E pure il cocomero", aggiungevano. E non so bene perche' questo cocomero democratico che varcava i confini del Grande Ospedale e arrivava fresco e a fette anche nel nostro recinto, come in tutte le spiagge, le ville sul mare, gli alberghi e i resort dei vacanzieri d'estate, un po' di sollievo, al solo pensiero, ce lo dava davvero.
Ricordo esattamente chi erano le infermiere in turno. E chi era ricoverato e chi no. Eravamo rimasti in reparto solo i casi piu' gravi, impossibili da dimettere nemmeno per 24 ore di permesso nel cuore dell'estate. Noi appesi al nostro filo sottilissimo, Serena sulla soglia della stanza 9 a vigilare su Bernardo che iniziava a peggiorare e Michela vestita da spiaggia, appena arrivata in quel giorno infame, a esplorare la ludoteca e a contare i passi del corridoio, con la madre e i nonni con gli occhi sgomenti e un sacchetto di frutta in mano a chiedersi il perche' di quel dolore al petto, a sperare ancora di essere finiti nel posto sbagliato nel giorno piu' sbagliato di tutti.
Poi mi ricordo che successe quelle che succede sempre anche a Pasqua, Natale, Capodanno, Carnevale. Arrivarono i clown, con la chirarra sulle spalle. Arrivo' l'assistente sociale dell'associazione dei genitori a chiederci se noi genitori volevamo andare a farci un giro, perché ai bambini per un'oretta poteva pensarci lei. Arrivo' la psicologa a chiederci se volevamo fare due chiacchiere.
Poi arrivò un'esponente piuttosto nota di un sindacato nazionale. La conoscevo abbastanza bene, me la vidi entrare in stanza e saltai sulla sedia. La invitavo sempre nel salotto di una trasmissione per cui lavoravo, in Rai. E siccome non lavoravo da mesi e tutta la vita precedente mi sembrava ormai insensata e lontana quando la vidi entrare nella mia stanza, senza preavviso e senza che io capissi bene il perché della sua visita lo trovai assurdo e comico insieme. Poi un'infermiera le disse che malattia aveva Angelo, lei mi strinse la mano e mi disse che il suo sindacato era molto vicino ai malati e che ogni ferragosto portavano alcuni regali in corsia: matite, colori, macchinine e Barbie, libri da sfogliare. "Pero' signora io non pensavo proprio che un bambino così piccolo potesse stare in questo reparto, un regalo per un bambino così piccolo non ce l'abbiamo", aggiunse. E da brava persona quale è sempre stata ed è si scusò abbassando lo sguardo. "Prenderemo il libro di Tarzan, va benissimo, sta imparando a sfogliarli proprio in questi giorni", tagliò corto Marco, rassicurandola e togliendola dall'imbarazzo. E a quel punto l'infermiera che l'accompagnava ci fece l'occhiolino e la accompagno' alla porta.
Ricordo che tutta la mia famiglia arrivo' dalla Puglia e che siccome era ferragosto li fecero entrare in stanza un'oretta prima dell'orario delle visite. Ricordo mia madre che mi porto' una teglia di pasta al forno calda e mi disse "vai a mangiarla in terrazzo, che prendi aria, al bambino ci pensiamo noi" e poi fece gli occhi lucidi e rossi e mi disse che doveva andare solo un momento in bagno. Ricordo che in via del tutto eccezionale sul terrazzo a un certo punto ci fecero venire anche Angelo, purché come i vampiri non prendesse sole per nessuna ragione al mondo, visti i farmaci che aveva in corpo. E ricordo che lo bardammo e gli infilammo in testa un enorme cappellino verde militare da Sampei e alla vista del sole, anche sotto il suo cono d'ombra, in quel minuscolo terrazzo che ci sembrava una foresta incantata, socchiudeva gli occhi e girava la testa da una parte e dell'altra come a chiedersi cosa fossero l'aria, l'ossigeno, le piante e l'orizzonte. Il suo mondo era molto più piccolo di quel terrazzo di pochi metri e quello strappo alla regola, improvvisamente, glie lo aveva fatto capire.
Ricordo che a ferragosto io e Marco decidemmo che da lì a due settimane ci saremmo sposati. La nostra famiglia andava celebrata e non bisognava consentire alla malattia di fermare i sogni, i progetti, la vita. Bisognava opporre tutta la resistenza possibile, bisognava rilanciare, bisognava provare a puntellare la nostra unione e riempirla di promesse e di rose. Forse avremmo dovuto celebrare le nozze senza Angelo, che non poteva lasciare l'ospedale di quei tempi nemmeno per cinque minuti. Ma avremmo fatto in fretta e saremmo tornati presto da lui. E così fu, due settimane dopo. E fu una cosa bella e giusta. E per ora ci ha portato fortuna.
Ricordo la fine, di quel ferragosto. Il tramonto infuocato davanti alla grande vetrata della stanza, il sollievo assoluto che anche quella festa in ospedale fosse finita. Ricordo che arrivarono le pizze e che giocammo tutto il tempo con il libro di Tarzan e che quando fu il momento di provare un po' a dormire il sonno arrivo' un istante dopo.
Quest'anno, a ferragosto, sono al mare. E qualcuno direbbe che ho da dimenticare quel ferragosto di piombo e ombra di un anno fa. Invece no.
Bisogna ricordarseli bene i bambini che oggi mangiano il cocomero in ospedale. Famiglie che portano le lasagne nel contenitore d'alluminio. Infermiere che fanno il ca ffè nella moka per tutti perché il bar chiude prima ma senza caffè come si fa. Medici che chiamano dalle ferie per sapere se i bambini stanno bene e se è tutto nella norma.
Bisogna ricordarseli bene i bambini che oggi mangiano il cocomero in ospedale. Famiglie che portano le lasagne nel contenitore d'alluminio. Infermiere che fanno il ca ffè nella moka per tutti perché il bar chiude prima ma senza caffè come si fa. Medici che chiamano dalle ferie per sapere se i bambini stanno bene e se è tutto nella norma.
No che non è niente nella norma. Perché i bambini a ferragosto dovrebbero stare a fare i castelli di sabbia con la paletta e il rastrello. Non dovrebbero saltare nemmeno un ferragosto della loro vita. Però pazienza. Qualche volta il mondo sottosopra si riesce a mettere in piedi e, nonostante i ricordi, il dolore lo lava via il mare. Qualche altra resta al contrario. Nonostante il cocomero democratico in corsia. Nonostante i libri di Tarzan, i clown, le psicologhe, gli assistenti sociali, i pennarelli per colorare. E allora bisogna solo aspettare che ferragosto con il suo rumore di fuochi d'artificio e tormentoni d'estate passi anche stavolta. Pensare che è questione di ore e questo evidenziatore giallo fluorescente della differenza tra chi sta bene e chi sta male si sbiadirà. Si asciugherà come acqua sulla pelle.
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