venerdì 1 giugno 2012

Recensione di parte di un film speciale. Per Valérie.

Esci, una sera, e vai a ballare. Lo vedi, lui vede te. Esplode un amore pulsante e senza pensieri che inizia a rotolare sui marciapiedi e sotto le lenzuola. Ne nasce un figlio che come tutti i figli del mondo profuma di promesse e futuro. Che all'inizio ti mette l'esistenza a soqquadro e poi lentamente inizia a colorare l'aria. Dorme tra te e suo padre nel letto, fa il bagno nudo nella vasca e fa schizzare con i piedi l'acqua e il sapone. La vita che volevi è arrivata. Si incastra ai progetti di ieri e domani, scivola leggera e ha un buon sapore. Finché un giorno quel figlio smette di mangiare. Vomita, non si tiene bene in piedi anche se dovrebbe già camminare. Ha un occhio che sembra bloccato e non segue più le cose. Starà bene, ti ripeti. Certo che starà bene, ti ripetono tutti. Ma poi all'asilo se ne sta appoggiato al muro, in disparte. Smette di sorridere, vomita ancora. E allora chiami il pediatra per capirne di più. “Serve una Tac, bisogna correre in ospedale”. E tu non hai nemmeno il tempo di preparare la valigia, di accorgerti che la prima parte della tua vita si è dissolta in un istante. Sei già altrove. Sul fronte. Tra lettini con le sbarre, flebo, medici e infermieri, pianti di bambini in sottofondo a martellare i pensieri. A casa, a tinteggiare la pareti di fresco con il rullo e la vernice, non si torna. Senza scelta e senza colpa il posto adesso è la trincea. Senza scelta e senza colpa, la guerra è dichiarata.

Si chiama così il secondo film di Valérie Donzelli (il primo tradotto in italiano), che ha incantato il pubblico di Cannes un anno fa e candidato agli Oscar 2012 per la Francia come miglior film straniero. Da ieri arriva in trenta sale italiane, per volontà ostinata e contraria della Sacher film di Nanni Moretti, che mentre fuori è già estate lancia una pellicola dolente e spregiudicata, che racconta di due giovani genitori e del tumore al cervello di loro figlio di 18 mesi. Nel film, insieme a Valérie Donzelli, ci sono Jérémie Elkaïm, il suo ex compagno, e Gabriel, loro figlio. Insieme, sono reduci da un vero sequestro di tre anni e mezzo in un reparto di oncologia pediatrica della Francia. Vero intervento al cervello, vero reparto di isolamento, vera camera sterile, veri litri di chemioterapia, per curare Gabriel, a cui, all’età di un anno e mezzo, era stato diagnosticato un tumore cerebrale rabdoide che, sulla carta, aveva il 10% di possibilità di guarigione. Ma oggi Gabriel di anni ne ha otto e i capelli a caschetto, sulle spalle. Come tutti i bambini della sua età ama Shrek, il Nintendo Ds, va alle elementari ed è il primo della classe in matematica.

La guerra è dichiarata racconta una cosa di cui nessuno parla mai: il cancro dei bambini e quello che succede nelle famiglie che devono affrontarlo. Che solo in Italia sono 1500 all'anno. Lo fa nel modo in cui non t'aspetti. Senza indugiare sulla malattia e sul dolore dei bambini, ma scegliendo di scommettere sul punto di vista dei genitori e sulla loro testarda resistenza al dolore, alla fatica e alla disperazione. Sulla loro capacità di reagire e rispondere colpo su colpo alla rassegnazione e allo sgomento. Mantenere il controllo senza perdere la testa. E salvare l'amore per la vita. La fiducia, la speranza di farcela. Perché i tumori infantili, anche se non dovrebbero esistere, non sono una condanna a morte e perché dai tumori infantili, come è successo al figlio di Valérie, dopo cure lunghissime e sfinenti, si può guarire.

La fusione tra poesia e azione è perfetta. E l'equilibrio incredibile tra incubo e favola si mantiene sempre, per incanto. In alcuni momenti, c'è qualche punta manierista, quasi barocca. Una voce fuori campo che spesso non serve; una canzone d'amore a frenare di botto il precipitare degli eventi subito dopo la notizia; uno zoom da mal di testa che accompagna l'incontro tra i genitori e il neurochirurgo; la scelta stessa dei nomi dei protagonisti carichi di un misticismo primordiale e forse eccessivo: Romeo, Giulietta, Adamo. Ma sono dettagli che si lasciano perdonare. Anzi rimarcano l'energia di una regia spregiudicata e quasi libertaria, che si accompagna a una colonna sonora altrettanto sorprendente, che alterna le stoccate di violino al punk-ska, le ballate voce e chitarra alla techno-house. 

Alcuni dei cinema in cui trovarlo: a Roma Nuovo Sacher, Mignon e Cineland; a Milano Eliseo Multisala, Anteo Spaziocinema; a Torino Nazionale; a Bari Il Piccolo; a Genova City; a Cagliari Greenwich d'Essay; a Firenze Fiorella Atelier; a Napoli Delle Palme

15 commenti:

  1. assolutamente da vedere...ma a Roma è già nelle sale??

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  2. Ci sono andata come si va a un appuntamento dove so che corro il rischio di farmi mettere KO da chi incontro. Ci sono andata sola per scelta (le cose che mi fanno paura le affronto così) e ho seguito il tuo consiglio: come unica scorta tanti pacchetti di fazzolettini di carta
    Sicuramente lo stato d’animo con cui si guarda il film è molto viziato dal fatto che quella storia con altri nomi e protagonisti la conosciamo. E questo fa una grande differenza.

    Credo che alcune scene siano sublimi nell’indicare il ritmo del tutto una volta che tutto comincia nella realtà. Non c’è tempo da perdere. Non si può. E c’è un tempo diverso. Altro. Bisogna attrezzarsi.
    L’idea che sia una guerra (impressionante che Concita usi la stessa metafora) e che la si affronta con una strategia (ogni giorno come fosse un nuovo giorno, fosse anche l’ultimo e lo sai), fidandosi e affidandosi, organizzando le truppe, rispettando i ruoli, concedendosi le pause giuste per dosare le forze, nominando le paure (perché l’obiettivo è uno solo e non puoi farti vincere dalle paure), hanno scene costruite e rese bene: loro due che dicono ai genitori cosa fare, l’incontro con la dottoressa quando scoprono che il tumore è quello peggiore e il tempo sarà lungo e bisogna organizzarsi perché il rischio è arrivare stanchi a qualsiasi cosa, che possa essere la peggiore o un barlume di speranza, credo siano anche artisticamente fatte bene.
    Accettare cioè senza replicare perché la vita ti chiede quello. Non un cedimento al lamento.
    L’unico momento in cui si chiedono ‘perché proprio a loro’ è di una efficacia sbalorditiva nella risposta e nella tenerezza degli sguardi e delle carezze.
    Molto belle le sequenze che a un certo punto ci sono su loro due che fanno running mentre il bambino è in ospedale in attesa di sapere quel che è e che si deve fare. Agli inizi non ce la fanno: rallentano, hanno il fiato corto. Prima indietreggia uno e poi l’altra. Alla scena successiva, stessa strada, ce la fanno un po’ di più e poi ce la fanno per tutta la salita. Cioè, in questa guerra dove si corre, bisogna allenarsi. Solo così il fiato non ti manca. Ma se ti sei allenato, poi puoi correre anche in moto. Perché si corre e basta: non c’è da discutere se lo devi fare tu.

    Ho trovato la voce fuori campo di disturbo. Diciamo un po’ fuori registro. Quel bisogno di raccontare i fatti comunque allo spettatore poteva essere reso in altro modo, anche perché alcuni interventi sono stucchevoli.
    Impressionante alcune sequenze che ritornano anche nel tuo libro: la scena della neve, il bisogno di respirare l’aria di mare, l’idea che congeli, sospendi, impacchetti i tuoi sogni, la tua vita. Con il sottofondo non detto, ma che avverti, che impacchetti perché poi potrai/dovrai spacchettarli. Non è una rinuncia. È un’altra cosa.

    Un elogio della paternità il frammento di diario che Romè scrive ad Adam la notte dell’intervento.
    (continua)

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  3. È un film coraggioso. Appunto. Parla di una cosa che non si conosce, non si vuole sapere. Ti chiede di accettare che ci sia. Perché, se non è capitato a te, non è questione di fortuna o sfortuna. È la vita che è così.

    Fa la differenza se tu ci sei dentro o sei fuori. Se sei tu quello che ce l’ha o sei il padre, la madre o le zie o i nonni o un estraneo. Ma è vita. È vita anche quella. Non è peggiore o migliore della tua. È la vita che altri in quel momento stanno vivendo. Punto. Basta. Non si fanno paragoni. Questo mi è piaciuto: il non indugiare in termini di privazione o di lamento su quello che non puoi avere di normale, semplicemente perchè è normale quello che tu hai. Loro che giocano alla ludoteca dell’ospedale con i giochi dei bambini è una scena bellissima.
    È una vita che ha altri ritmi e altre regole, altre sequenze, ma è ugualmente fatta di tenerezza.
    Io l’ho trovato un film anche ‘sulla tenerezza’, che è una cosa diversa dall’amore, dalla passione.

    Allora: non ho trattenuto le lacrime sulla scena quando accompagnano il bambino sul lettino il giorno dell’intervento. Loro, senza una lacrima, senza un minimo di cedimento di fronte al bambino gli parlano e gli spiegano tutto. Lì mi sono detta e ti ho chiesto: ‘cazzo Paola come avete fatto a vivere quel momento’. Perché secondo me voi avete fatto così: non avete pianto mentre lo lasciavate andare in sala operatoria. Gli avete dato sicurezza e gli avete chiesto di essere forte perché era la sua vita. E voi non potevate nulla. Doveva fare tutto lui a partire da quel momento.
    Questa idea che ritorna nel film credo sia fortissima. Ognuno in quella guerra ha il suo ruolo. Non ti puoi sostituire o fare quello che un altro deve fare. A ognuno il suo pezzo di lotta. Ma si combatte insieme. Senza interferire.

    Ci sono regole da seguire per potercela fare. Non è questione di essere predestinati. Un film per questo ‘laico’. Di una laicità responsabile. Perché ce la puoi fare ma se non ce la fai, hai dato la possibilità di far capire ai medici come migliorare le terapie, di saperne qualcosa in più. Essere un caso clinico in un protocollo con statistiche e dati certi che strappano terreno alle ipotesi, ti dà una responsabilità. Ti affida un compito. Devi portarlo avanti. Fino alla fine. Se cedi tu, altri potranno non farcela

    Credo che in questo ci sia il messaggio ‘civile’ del film e del libro.
    Tu e Valerie avete capito questo. Ed è utile che lo capiamo in più.

    Quando sono uscita ho salutato i tuoi. Tua madre ha detto: “impressionante alcune scene erano proprio come quelle che ha vissuto Paola.” Era spaventosamente stupita tua madre. E qui ti viene in mente che forse il destino esiste perché non è possibile che questo libro e questo film escano proprio ora insieme. È come se vi foste date appuntamento tu e Valerie.
    Ci siamo salutati e io sono andata verso il mare, a piedi. Volevo respirare l’aria del mare.
    Dietro di me c’erano alcune persone uscite dalla sala: una ha commentato dicendo che questo è un film che un po’ vuole dare speranza e illudere, perché si sa come vanno le cose. Un film un po’ romantico e romanzato.
    Ti confesso Paola che se avessi avuto il libro in borsa mi sarei girata e lo avrei regalato alla signora.
    Ho avuto la tentazione di girarmi, andare incontro e dirle: ‘ma lei che ne sa? e sa che non ha diritto di parlare della vita degli altri ma solo della sua?.
    Poi, siccome forse sarei stata irruente (era proprio irritante la signora e quello che diceva), ho proseguito e ho pensato: a gente come questa bisogna far leggere il libro. Quindi al lavoro. Che la guerra è stata dichiarata e noi abbiamo qualcosa da fare, ora, in questa guerra.
    Buona domenica Paola Nat da elvira zac.

    elvira zaccagnino (media@lameridiana.it)

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  4. Grazie editore! Sarebbe bello se chi sta andando al cinema a vedere il film avesse la tua stessa voglia di raccontarmi e raccontarci qualcosa del sapore che resta dopo la visione, in questo spazio commenti.

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  5. @Anonimo: Ecco la programmazione a Roma

    Mignon - Via Viterbo, 11, Roma - Mappa
    ‎16:00‎ - ‎18:10‎ - ‎20:20‎ - ‎22:30‎
    Nuovo Sacher - Largo Ascianghi, 1, Roma - Mappa
    ‎16:30‎ - ‎18:30‎ - ‎20:30‎ - ‎22:30‎
    Cineland - Via dei Romagnoli, 515 Ostia Lido, Roma - Mappa
    ‎16:00‎ - ‎18:10‎ - ‎20:20‎ - ‎22:30‎
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  6. ciao paola
    http://duepercento.blogspot.it/2012/06/tutta-forza.html

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  7. cara paola, è un pò che volevo affrontare una questione annosa che percorre in molti post del blog, e che vorrei riuscire a esprimere spero al meglio possibile.
    Lo spunto me lo dà il tuo ultimo scritto riguardo al film, che purtroppo non ho ancora visto: guerra dichiarata è lo stato d'animo preciso che uno prova in questa assurda vicenda della malattia del proprio figlio ; che strano un giorno ho visto su un giornale la foto di un bambino colpito da una granata in braccio a un padre, e ho riconosciuto mio figlio, una sensazione profonda di ghiaccio e fuoco nello stesso momento.
    Ho incominciato a interrogarmi sulla sensazione di ingiustizia che mi suscita la guerra e così anche la malattia di un bambino; perchè anche se è vita è un'igiustizia tanto che "il perchè a lui, a noi?" non ha risposta perchè non ci sono nè meriti nè colpe per attraversare o no l'inferno, non provo vergogna per la malattia ma nello stesso momento non mi porto la croce, faccio quello che c'è da fare, cerco di non far trasparire a mio figlio quello sguardo che è cambiato nei suoi confronti, infatti non c'è più la spensieratezza delle vita che cresce, si è fatta largo la speranza che diventi grande ma è una speranza che sà di amaro.
    Per arrivare al punto non credo che ci sia una santificazione del dolore, no penso che migliori e che uno diventi più forte dopo averlo attraversato, e sottolineo attraversato; spero solo che passi, che lui ne esca , e persino di dimenticarlo; spero che quel reparto cessi di esistere, che la comunità scientifica e civile faccia indagini e scelte responsabili per cui non debbano esistere posti come questi; perchè la verità è questa: niente e nessuno potrà restiturci questo tempo, cara paola, nè a noi nè, soprattutto, ai nostri figli.
    Un padre un giorno mi disse " sai qual'è la parola che più odio? E' quando ti dicono " coraggio" ", perche è vero: è un pò come il leone del regno di oz, il coraggio non si infonde ne si impara, viene quando deve venire, non pensi nenche di averlo eppure eccolo qui che ti fa affrontare tutto e ti dà il permesso anche di sorridere.
    Quello che c'è di straordinario in questa vicenda è l'umanità delle infermiere,dei medici e di tutti quelli che lavorano nel regno di op, che appunto dovrebbero tutelarsi per andare avanti, ma non lo fanno non separano la professionalità dalla persona e per questo non finirò mai di ringraziarli. Marta una mamma

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    Risposte
    1. Cara mamma Marta

      certo, e' inutile descrivere il dolore, inutile centrare l'attenzione di un blog e di un libro su questo, pensare di "ammaestrare" le proprie sofferenze; chi ha un figlio malato soffre, inutile sottolinearlo, soffre il figlio, soffre il genitore, e nessuno ci restituira' il tempo speso in questa guerra, nessuno ci restituira' tante altre cose che ci hanno cambiato per sempre, che ci hanno reso piu' vecchi, duri, e che non potremo mai dimenticare, ma, come ripetuto molte volte, questo blog, il libro che ne deriva, e anche il film della Donzelli sono altro, sono il tentativo di accendere i riflettori sulla malattia oncologica pediatrica, per dare all'attenzione dell'opinione pubblica un argomento che viene letteralmente nascosto al dibattito pubblico, perche' troppo doloroso. Il tema quindi e' soltanto, solamente, unicamente questo, e non c'e' altro, perche' il resto e' privato, e' inenarrabile e oltretutto impossibile da spiegare a chi non ha vissuto in prima persona qualcosa di simile.
      Un giorno un mamma come te, come mia moglie, il cui bambino era, grazie al cielo, "sano", a una mia domanda rispose cosi' "...guarda, io non lo voglio neanche sapere che i bambini si ammalano di cancro". Ecco, operazioni di comunicazione come il film della Donzelli e il libro "Il regno di OP" vorrebbero invece spalancare le orecchie a quella mamma, per portare alla sua attenzione un tema che non deve essere nascosto e che richiede la partecipazione di istituzioni e soggetti pubblici. Ogni genitore che e' passato in un qualche regno di OP ha il dovere civile (e anche politico) di raccontare la propria storia; questo pensiamo, altri aspetti della malattia non ci sono mai interessati fino in fondo, cioe' non ci interessa raccontarli compiutamente perche' sono fatti che attengono alla sfera privata di ognuno. Quando aspetti del genere vengono inseriti nella narrazione sono soltanto pretesto per portare acqua alla causa del tema principale, raccontare la malattia e costringere istituzioni ed opinione pubblica ad occuparsene.

      Il papa' di Angelo

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  8. La frase che ci accompagna da 2 anni a questa parte: "..Perché i tumori infantili, si può guarire..."
    Grazie Paola per la tua dolcissima recensione e grazie perchè ogni volta che scrivi scavi dentro la mia anima!!!

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  9. Sei una grande donna e una grande mamma!!!ogni volta e' un'emozione.Spero di avere tra le mani il tuo libro il piu' in fretta possibile.....Maria.

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  10. Anche ad Aosta è arrivato il tuo libro... e oggi l'ho acquistato.
    Un abbraccio.
    Luigi

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  11. Paola, ho visto il film e - seguendo il tuo suggerimento - vorrei commentarlo qui. E' un film bellissimo. Per tanti motivi. Perché racconta la verità, una verità che in pochi conoscono. Perché non indugia sul dolore. Perché non usa immagini subdole legate al bambino, se non quelle necessarie al racconto. Perché spiega cosa succede agli adulti, quali sono le loro paure e le loro debolezze.

    Anche io, come te, sono giornalista, vivo a Roma, e ho un figlio di neanche due anni. Vedere questo film, così come leggerti, è ogni volta un assaggio duro di paura. Come sfiorare il fuoco: ogni volta hai paura di farti male. Ma devo ringraziarti, davvero, perché questo fuoco serve - ogni volta - a crescere un po' di più, a tenere a mente le molteplici facce della realtà.

    Mi spiace non potere essere lì ora alla presentazione del libro. Considerami in prima fila.

    Simona

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  12. Ho deciso di provare anch'io a scrivere qualche parola qui, in uno spazio pubblico, perché se neanche in un luogo virtuale mi riabituo a parlare ad alta voce di storie come queste, che sono vere e belle prima di essere ingiuste e dolorose, non so bene quando imparerò.

    Vorrei iniziare a parlare di questo film proteggendomi, dando voce a valutazioni critiche delle quali posso farmi scudo: che sì, la voce narrante è superflua e rompe un po' l'intimità tra lo spettatore e i personaggi, o che sì, le figure dei genitori - specie di quelli di Valérie - sono un po' tagliate con l'accetta.
    Inizio così, proteggendomi, perché "La guerra è dichiarata" è un film che mi ha denudata, mi ha fatto sorgere il pianto dalla pancia, ha richiamato alla superficie della pelle quel dolore furioso e sbigottito e senza appello che chi ha vissuto storie anche solo in qualche modo simili a quella di Juliette, Romeo e Adam sa e non sa più tanto dire.
    Quello che mi piacerebbe scrivere, però, è che ho anche riso dentro la piccola sala, ho riso tanto. Che la serie di paure confessate nella notte prima dell'intervento, all'inizio terribili e poi esilaranti, mi hanno fatta ridere ad alta voce nella sala semideserta. E che, al di là di ciò, più che un film sul dolore questo è stato per me un film sulla lotta, sulla capacità di restare in trincea senza farsi abbattere dal fuoco nemico, sulla tenerezza del tenersi stretti anche quando di fiato per dire "ti amo" non ne è rimasto più e bisogna stringere i denti, risparmiare energie e correre. Bellissime, infatti, come ha già commentato l'editrice qui sopra - con delle parole di una sensibilità squisita - le scene di corsa all'inizio del post-op, all'inizio della caduta nella chemio. A proposito: anch'io ho sgranato gli occhi quando ho visto le scene nella neve e, con un nuovo sorriso, ho pensato: il goretex!

    Sopratutto, mi rendo conto che sono andata a vedere questo film commettendo un errore: dicendomi, cioè, che era una cosa che riguardava solo me, in quanto legata intimamente al mio vissuto, e che, dunque, non volevo con me nessun altro. E' l'errore di sempre: come se la malattia, e la malattia dei bambini in particolare, appartenesse a uno scompartimento di vita differente da quello della vita di tutti e come se, quindi, non fosse condivisibile al di fuori del cerchio di chi l'ha conosciuta. E mi vengono in mente i molti discorsi fatti con mia madre al riguardo, sul senso di colpa incongruo che io o lei proviamo quando ci troviamo a parlare della malattia, come se si dovesse chiedere scusa all'interlocutore per averlo trascinato in questa terra straniera che, poi, così straniera non è. In società organizzate a livello tribale (uso termini non tecnici, per carità, mi si conceda un po' di emozione =)) mi raccontano che per il dolore era previsto uno spazio condiviso, esso veniva socializzato e così, in qualche modo, addomesticato. Ora, esso è divenuto, come si diceva alla presentazione del libro, un'invalidità.
    Tu, Paola, col tuo libro, e Valérie col suo film state adempiendo a un compito al quale tutti eravamo chiamati: state rompendo il cerchio magico. Vi ringrazio e, invece di tenerli stretti al cuore come parlassero solo di me, cercherò di alzare la voce e consigliare sia il libro, sia il film anche al di fuori dalla ristretta cerchia dei fedelissimi.
    Un abbraccio ancora un po' emozionato,

    Chiara B.

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  13. ho letto il libro, un'esperienza ricca di emozioni lacrime e tristezza come un concentrato della vita, un libro che però spiega bene le nostre emozioni che descrive la nostra storia. Grazie alla scrittrice che ci ha regalato l'opportunità di far conoscere questo mondo a molte persone.
    grazie Francesca

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  14. Domani (16 luglio) sarò a Molfetta e verrò alla presentazione. Non credo opportuno farti i complimenti per questo libro, so che avresti preverito non scriverlo, non avere gli argomenti per scriverlo. Ti dico solo Grazie, davvero.
    c.

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