sabato 28 gennaio 2012

Se fossi padre

Se fossi padre, nel regno di Op, dovrei attenermi agli orari di entrata e uscita. Ogni sera saluterei mio figlio con un bacio sulla fronte, mia moglie con un abbraccio e tornerei da solo, a casa, guidando sfinito e sovrappensiero, cenando con un panino e poi a letto, senza riuscire a prendere sonno. Scrivendo sms, preparando e disfacendo valigie, pensando con angoscia e tormento a chi resta a dormire sulla branda pieghevole del regno di Op.

Se fossi padre, mi sveglierei quando fuori è ancora buio e la mattina alle 7 passerei dal bar del Grande Ospedale, mi farei largo tra la folla appoggiata al bancone, ordinerei un cappuccino a portar via nel bicchiere di plastica e camminerei veloce, verso l'ascensore, attento a non far rovesciare la schiuma. Poi suonerei il campanello davanti alla porta a vetri bianca e blu del regno di Op, saluterei le infermiere al cambio turno ancora con le divise in mano, i portantini dietro al carrello della colazione, gli altri papà tornati alla base, ed entrerei in stanza, finalmente sollevato, finalmente al mio posto. Anch'io.

Se fossi padre, a ogni ricovero nel regno di Op, mi manderebbero subito al terzo piano a sbrigare le pratiche amministrative, anche se vorrei stare lì al decimo, in medicheria, con mio figlio e con sua madre. Sapere come va la febbre, se la medicazione del catetere è a posto, se le complicazioni alla terapia sono normali, se la frequenza cardiaca va bene, che farmaci metteranno in flebo, a che ora passeranno i dottori. "Vada prima ad aprire la cartella del ricovero in amministrazione, papà", mi ripeterebbe bonariamente una delle infermiere di Op. E se fossi padre, cuore in gola e documenti alla mano, farei un bel respiro e, senza scelta, andrei.

Se fossi padre penserei a rinnovare l'abbonamento al parcheggio del Grande Ospedale a fine mese, a comprare le bottiglie di latte in farmacia e i pannolini al supermercato, a prendere le ricette dal pediatra, a fare la coda alla Asl, a sistemare le cose al lavoro, ad aggiornare i nonni sull'ultima ecocardio e sulla prossima Tac.

Se fossi padre nessuno parlerebbe del mio dolore. Verrebbe prima quello della mia donna, poi quello del sangue del mio sangue. E imparerei anch'io a pensare così: prima la mamma, poi il piccolo. Solo dopo, io: così impotente, così accessorio, così incapace di proteggerli, così obbligato a proteggermi. Se fossi padre, nel regno di Op, mi sentirei in colpa, non mi sentirei abbastanza, mi suonerei fuori posto, vorrei fare di più. Immotivatamente, certamente: se fossi padre starei più o meno così.

E' per questo che penso che sia meglio essere madri, nel regno di Op. Incrollabili, onnipresenti e fiere. A volte fragili, altre volte d'acciaio, con le radici ben piantate a terra, la comprensione di tutti attorno, l'assistenza costante, la solidarietà. E i padri a fianco a cui appoggiarsi. Parafulmini silenziosi, discreti e laterali, a bussare piano alla porta, la mattina. A chiederci com'è andata la notte, a portarci una maglietta di ricambio. Un giornale fresco di stampa, un cornetto caldo, un tubetto di dentifricio. Un bacio, un caffè.

domenica 22 gennaio 2012

La legge della carne uguale al pesce

Ricordo ancora una sera di settembre, a cena a casa di amici dei miei, in Puglia, quattro o cinque anni fa. Si brindava allo zio Nanni, reduce da una decina di cicli di chemio e un intervento durissimo per un tumore all'intestino. Era passato qualche mese dall'ultima terapia. Iniziavano a ricrescere i capelli, finalmente il volto riprendeva a distendersi, il solito sagace sorriso tornava a risplendere, insieme a una vocazione strepitosa per la battuta agrodolce e fendente. "Buon appetito a questa bella tavola. E a me che finalmente riesco a distinguere il sapore della carne da quello del pesce", disse  arrotolando una matassa di spaghetti alle vongole attorno alla forchetta, ancora premurosamente molto sconditi vista la delicata convalescenza.

Seguì ampia spiegazione del fenomeno e fu allora che imparai che chi fa chemio non rifiuta il cibo solo per nausea o sfinimento. E' che proprio non sente il sapore. Lo sterminio delle cellule a crescita rapida, indispensabile a fermare ogni tumore, non risparmia nemmeno la lingua, le papille gustative, il piu' scontato e gratuito strumento di piacere quotidiano della vita.

Quest'estate - mentre zio Nanni è guarito e le vongole è tornato a mangiarle affogate d'olio e prezzemolo, come ai bei tempi - io ho imparato, sulla pelle di mio figlio, che per i bambini la legge della carne uguale al pesce e' la stessa.

Quando proposi a mio figlio i primi vasetti di frutta alla mela, all'inizio li accettò di buon grado. Poi la sua chemio si intensificò e aggiunsero al suo cocktail salvavita il potente Endoxan, ciclofosfamide, il più antico dei chemioterapici, solitamente sconsigliato nei lattanti, ma inevitabile nel suo caso, altrimenti destinato a una prognosi infausta. Endoxan e crema di riso esordirono insieme nel complicatissimo agosto del mio neonato-leone, che provò a combattere colpo su colpo, per poi crollare all'aggiunta del primo liofilizzato di carne e capitolare al secondo ciclo di "chemio potenziata", fino a rinchiudersi in una monogamia alimentare impenetrabile e blindata con il latte di crescita. Anche dopo una brutta chemio, il biberon è una consolazione basata su un riflesso incondizionato primordiale che non sempre ha bisogno del sapore come condimento. E meno male.

Nei bambini più grandi, però, la scomparsa del gusto è ben piu' drammatica. E spesso l'unico modo per continuare ad alimentarli è assecondare le richieste acrobatiche dei cibi più cancerogeni del west, banditi da ogni pediatra e rivista di settore. Il nostro ultimo amichetto di stanza, Giorgio, è entrato nel regno di Op che era un principe dell'alimentazione modello. Creme di zucca, passati di verdure, pasta e olio extravergine, carni bianche a volonta'. Appena ha iniziato la bomba atomica del mix Endoxan-cortisone, necessaria ad arginare la sua aggressiva leucemia, ha sviluppato una dipendenza inarrestabile da patatine in busta. Di tutto quel sale sintetico, un po' di gusto comunque arriva. E un po' di sollievo alle afte in bocca anche. Finito il cortisone, che porta con se' il divieto assoluto di dolci e caramelle, la dieta di Giorgio si e' potuta arricchire di un po' di Pandistelle.

Manuel, invece, vuole solo omogeneizzati al pesce. E' l'unico sapore che varca la soglia dei farmaci, insieme a quello del Fruttolo alla fragola. Bernardo costringe il papa' a un viavai tra il regno di Op e il più vicino Mac Donald's, perché il retrogusto acido del cheesburger surgelato e del cetriolo plastificato non teme concorrenti quando si tratta di sfide impossibili alla ricerca del sapore perduto. Michela, che per far fronte al suo neuroblastoma metastatico i chemioterapici li sta provando tutti, del vitto dell'ospedale non riesce a sentire nemmeno l'odore e l'unica cosa che mangia, se proprio é in forma, é la ciambella fritta del bar del Grande Ospedale. Astrid, che sta sperimentando un nuovo farmaco contro l'osteosarcoma, annaffia il suo stomaco martoriato di coca cola e tramezzini, di cui le arriva almeno il gusto della majonese. Dice che comunque, negli spazi tra una chemio e l'altra, quando riprende a mangiare qualcosa come le sue amate zuppe, minestre o puree di lenticchie e ceci, ogni alimento assunto prima, durante le terapie, le provoca disgusto.

E così finisce che noi genitori, che in qualche modo dobbiam pur restare in piedi e non abbiamo tempo neanche di scendere al bar, spilucchiamo gli avanzi dai vassoi dei nostri piccoli, mangiando ogni boccone di corsa, o nascosti in un angolo per non farci vedere da loro e non infastidirli con qualche odore fuori posto, nè suscitare nausea o nostalgia.

E c'é anche chi lascia il vassoio li', nel grande carrello d'acciaio con i ripiani e le ruote. Per solidarietà, per senso di colpa. Per contagioso rifiuto verso il sapore delle cose. E perché tra flebo, trasfusioni, bambini spiaggiati su lettini con la ringhiera e sedie a rotelle iniziamo a non sentire piu' nessun sapore anche noi.

martedì 17 gennaio 2012

Ci dev'essere un errore

Si torna a casa, a tirare il fiato, quando non siamo ricoverati nel regno di Op per una terapia, un febbrone da cavallo o una tac di verifica. Le case dei genitori di Op, pero', non sono piu' case qualsiasi e si sono lentamente trasformate in colorate succursali del Grande Ospedale, con le mensole piene di scatolette di farmaci, confezioni di garze, siringhe di ogni taglia e portata, post it al muro con sopra annotati gli orari di somministrazione del diuretico, la formula di diluizione dell'anticoagulante, il numero di confezioni da ordinare della compressina per il fegato.

Riscoprirsi infermieri mancati puo' essere anche appassionante, a prenderla con filosofia. Tra un attacco d'ansia e l'altro, visto il non indifferente carico di responsabilita' e le complicate equazioni matematiche che precedono la preparazione di una siringa o lo scioglimento di una pasticca.

Ben piu' desolanti, invece, sono le trasferte in farmacia, ricette rosse alla mano, alla ricerca dei farmaci in questione. Prima di ottenere l'invalidita' civile totale, infatti, gli ospiti del regno di Op rientrano nella generica categoria del "codice 048", quello riservato ai pazienti malati di cancro in generale.

"Ci dev'essere un errore", mi sono sentita ripetere dai farmacisti di ogni eta' e quartiere, piu' di una volta, alla presentazione delle ricette del mio bimbo di pochi mesi con sopra lo-zero-quarantotto. "Quale errore?", ho chiesto stupita la prima volta, quando ancora alla scenetta non avevo fatto il callo. "Questo e' il codice dei malati di cancro, signora. Il bambino che patologia ha?". Alla risposta "il cancro", appunto, ho visto sguardi di farmacisti imbarazzati abbassarsi bruscamente, ascoltato comizi non richiesti e scuse maldestre sulla rarita' assoluta del fenomeno, ricevuto pacche di incoraggiamento da specializzandi assai poco specializzati, novantenni in fila incolpevoli eppure rossi di vergogna e signore impellicciate con in mano creme antirughe, intente a ripetermi che la vita e' amara e a spedirmi nelle fauci di numerosi lupi.

"Lo zeroquarantotto e' un marchio a fuoco. Anche quando guarisci ti resta addosso", mi ha ripetuto ieri Lorena, amica e maestra di vita, ricoverata per il suo secondo intervento al quarto piano del Grande Ospedale, dove al posto dei bambini ci sono le donne. Le zeroquarantotto con la morte nella pancia da una parte, le partorienti con la vita in grembo dall'altra, per uno strano scherzo della logistica e del destino.

Come madre di uno zeroquarantotto non so bene che codice ho.
Pero' in fondo hanno ragione in farmacia: ci dev'essere un errore, da qualche parte. Nell'esistenza del regno degli zeroquarantotto, in generale. E in particolare nell'esistenza stessa del regno di Op.

lunedì 16 gennaio 2012

Autointervista in dormiveglia della Signora Amuchina

(Il post che segue è liberamente tratto da una mail che ho appena ricevuto da una mamma del regno di Op)

Era una sera di ottobre quando io, Attila e mio marito siamo finiti nel Grande Ospedale. Dal pronto soccorso ci hanno mandato in Pediatria. Poche ore dopo ci hanno spostato nella Berlino Ovest del regno di Op. Venivamo da un'estate strana, fatta di linfonodi che spuntavano come funghi sul corpo di Attila e vagabondaggi inconcludenti per gli ospedali di mezzo sud Italia. Quella sera di ottobre non abbiamo subito capito cosa stava realmente accadendo. Tutto andava molto veloce. Ci hanno dato un braccialetto con la data di nascita di Attila, due anni e mezzo fa. Ci hanno accompagnato in fretta al letto 12. Nel frattempo, la febbre saliva. Trentanove, quaranta, quarantadue.

Non capivamo bene cosa stava accadendo. Ma in fondo era già chiaro che eravamo stati scelti per un cammino speciale. Ricordo il panico, la vertigine durante la caduta. Ricordo le lacrime che bagnavano il mio viso, insieme a quelle di mio marito che grondavano come mai nella sua vita. Leucemia, ci avrebbero detto a breve. "Si può guarire, ma è una maratona molto lunga. Almeno due anni di cure". 

Così è iniziata la prima fase del nostro corso di sopravvivenza nel regno di Op: cinquanta giorni di isolamento fatti di una visita al giorno dei medici-vigilanti e di incursioni continue delle infermiere-fatine. La fatina della notte che si ferma a parlare con te perché sa che tanto non dormi; la fatina dei pesciolini che disegna animaletti sulle ampolle delle flebo dei piccoli ospiti, per addolcirne il veleno; la fatina senior che ti consola come solo una madre può fare. E poi la fatina con la coda ai capelli e l'elastico a forma di asinello, che quella notte di ottobre, quando Attila sembrava non potercela fare, con la sua polverina magica e tante stelle filanti riuscì a farlo addormentare d'incanto. E da quella notte è diventata la nostra fatina del cuore. Ogni fatina, nessuna esclusa, contribuisce a superare il corso di sopravvivenza.

Quando sei in isolamento a Berlino Ovest, le giornate non passano mai. Ognuno è chiuso nella sua stanza, che cerca di trasformare in un pezzo di casa, rimpinzandola di giochi  per i cuccioli di ogni genere e forma. Lo scopo delle mamme è la resistenza, in nome della convinzione che prima o poi si varcherà quella porta blu a vetri, quella alla fine del corridoio di Op, prima dell'ascensore, e si tornerà a casa. Per resistere senza cadere in terra ci si inventa di tutto e ogni mamma ha la sua ricetta. Io ho pulito, pulito e ripulito. Continuamente, pur di non pensare al rebus che mi è scoppiato fra le mani e a cui non sarò mai in grado di rispondere. Pulito, pulito e ripulito. E' per questo che le fatine mi chiamano Signora Amuchina. Quello che cerco di fare, in fondo, è riordinare il regno di Op. Rimettere le cose a posto, almeno un poco. Ma tanto non ci si riesce, perché alla fine ogni bambino resta nel suo letto. E non è certo questo il posto dove i bambini dovrebbero stare.

Quando scende la notte, come molte mamme di Op, piango. Lo faccio quando mio figlio dorme e non può sentirmi. Piango e lo osservo, nella nuvola bianca del suo letto, circondato da flebo e fili. Piango e mi ripeto che non devo piangere, ma dormire, perché domani ricomincia il corso di sopravvivenza, riparte la maratona. E ci vuole energia, ci vuole fiato, ci vuole forza, ci vuole testa. Così provo ad assopirmi, ma è impossibile, perché entrano le fatine ogni ora, a controllare le flebo con la chemio, che Attila chiama "acquaqua", e a controllare il bilancio dei liquidi. Ad accertarsi con le loro piccole lucine che anche alla fine di questa giornata qualche passo in avanti è stato fatto, qualche dose di veleno in più è stata smaltita, qualche goccia di farmaco in più è scesa. Finché cambia il turno, passa la colazione e viene giorno.

sabato 14 gennaio 2012

Lettera aperta alle mie amiche di pancia


Cara Elena, Emilia, Milena, Sabrina, Alessandra, Stefania, Giusy, Cinzia, Serena, Ilaria, Silvia e care tutte le altre mie amiche di pancia,

sono seduta su una di quelle poltrone-letto del regno di Op dove noi mamme ospedalizzate passiamo la notte in un dormiveglia inquieto, aspettando che il sonno arrivi a consolarci un po'. Ora, però, è giorno e ho appena bevuto un caffe' macchiato bollente che il papa' di Angelo mi ha portato dal bar del Grande Ospedale. Il piccolo dorme nel letto a fianco in attesa di fare un prelievo, dopo il quale forse usciremo per passare almeno la domenica a casa, prima della chemio di lunedì. Così ho finalmente un po' di tempo per scrivere a voi.

Sono giorni e giorni che vi penso e cerco le parole giuste da dirvi, dopo questi mesi di imbarazzato e strano silenzio. Vi penso da quando ho comprato il calendario nuovo e ho preso in mano quello vecchio, con le stampa di Van Gogh, per buttarlo via. L'ho sfogliato un po', prima di destinarlo al cestino, per vedere cosa c'era scritto nei quadratoni del gennaio di un anno fa. Ho sorriso e poi ho piagnucolato un po', alla vista di scarabocchi piuttosto monotematici dedicati a ecografie di controllo, visite ginecologiche, curve glicemiche, lezioni del corso preparto.

Un anno fa, a quest'ora, ero incinta di sette mesi e Angelo rotolava spensierato nella mia pancia. Avevo scelto il passeggino, ordinato il lettino, comprato le quattro tutine per i giorni al nido, le orribili camicie con i bottoni davanti per il parto, gli assorbenti giganti, gli inutili calzini bianchi da ospedale. Anche voi indossavate una pancia più o meno grande, o avevate appena dato alla luce un cucciolo ed eravate in piena estasi da nascita e rinascita.

Abbiamo passato ore al telefono a parlare di posizioni del travaglio, libri sulla puericultura, moduli per l'asilo nido, decaloghi sull'allattamento al seno e marche di pannolini. Ci siamo scambiate mail su negozi online di creme biologiche anti smagliature per noi e anti arrossamento per loro, abbiamo sfogliato cataloghi per vacanze al mare in strutture attrezzate con miniclub e biberoneria, abbiamo organizzato gite in camper, passeggiate al parco e trasferte fuoriporta, abbiamo scoperto insieme i segreti delle basi Isofix e dell'aereosol a ultrasuoni. Quando è nato Angelo mi avete sommerso di regali bellissimi, lettere che conservo in quaderno azzurro con l'elastico rosso, tubetti di pomate per l'allattamento che avevate appena finito di usare e a voi non servivano più o domande sull'efficacia dell'epidurale visto che il prossimo turno sarebbe stato il vostro.

Alessandra mi ha spiegato che durante il parto la respirazione e' l'antidolorifico piu' potente, Elena che il pannolino era meglio cambiarlo dopo le poppate. Milena mi ha chiesto se davvero si sopravvive sereni a 36 ore di travaglio, Sabrina mi ha promesso che Angelo e i suoi due gemellini prossimi venturi avrebbero giocato a raccogliere i "Sangiuseppe" nel terreno col bicchiere di plastica, in campagna, come facevamo noi da bambine. Con Cinzia ricordo una telefonata bellissima sulla prima volta che aveva sentito il battito del cuore della piccola Emma, Emilia me lo ha detto su Facebook, in chat, che aveva Nina nella pancia.

E poi Stefania, Serena e le "amiche del consultorio", con cui ci siamo viste gonfie come balene e poi imbranate con i cuccioli appena nati in fila davanti alla bilancia dell'ostetrica da cui li portavamo a pesare già dai primi giorni di vita. Mi aspettavano al bar per il caffe' decaffeinato e il cornetto senza crema, prima dei nostri giovedi' dello spazio mamme. Giravamo per il quartiere con i nostri passeggini, ancora incapaci a scendere un marciapiede senza il rischio di ribaltarlo o a non farci cogliere dal panico davanti a un pianto improvviso. Trasformavamo, tutte e contemporaneamente, la nostra vita in qualcosa di nuovo e preistorico insieme. Ne eravamo sconvolte e entusiaste, nonostante le occhiaia e i capezzoli screpolati.

Poi Angelo ha incontrato il suo destino e ci è cascato dentro. Ha attraversato lo specchio ed è finito dall'altra parte, nel Paese senza meraviglie che poi e' il regno di Op. Per molti mesi le parole per raccontarvelo io non le ho trovate. E così vi siete ammutolite anche voi, vostro malgrado e senza colpa. Abbiamo smesso di parlare di latte e tutine, notti insonni e nonni invadenti. Il nostro viaggio insieme è stato interrotto bruscamente, il panorama fuori dai nostri finestrini non è stato più lo stesso.

Però, care amiche di pancia, per favore, non sentitevi inadeguate se mi parlate ancora del raffreddore dei vostri piccoli e delle fatiche dello svezzamento. Di quanto è duro l'inserimento al nido e di quella volta che siete scappate al pronto soccorso per la sesta malattia. “Certo, niente in confronto a quello che state passando voi”, mi ripetete ogni tanto, scusandovi della presunta banalità dei vostri problemi e dei vostri argomenti, che poi erano anche i miei, fino a qualche mese fa. Come se voi foste mamme meno straordinarie e speciali di me, quando invece abbiamo imparato a essere mamme straordinarie e speciali insieme. Scusandovi anche un po' della vostra felicità, che non è niente di diverso da quello che io vi auguro, ora e sempre, e da quello che io desidero con ogni mia cellula per voi e per i vostri figli. Per tutti i figli del mondo.

Se c'è una ferita che mi brucia più di tutte, della nostra prigionia nel regno di Op, è il divieto di vedere gli altri bimbi che hanno imposto ad Angelo fino alla fine delle chemioterapie. Per un bimbo immunodepresso e senza vaccini, i suoi simili che hanno vita libera e senza catene fuori dal Grande Ospedale sono purtroppo un pericolo, un rischio da non correre. Così ho dovuto rinunciare a voi e ai vostri piccoli e al nostro sogno di vederli crescere insieme, che un anno fa, a quest'ora, sembrava così scontato e portata di mano. Ma voi ci saprete aspettare.

Nel frattempo, non leggete le nostre storie pensando che siamo genitori-eroi e minimizzando le vostre quotidiane gioie e le vostre ordinarie disavventure. Al nostro posto, avreste fatto lo stesso e forse meglio. E noi al vostro stamattina, che è sabato e fuori c'è il sole, ce ne saremmo andati senz'altro a fare un giro al lago o, perché no, a fare spese in un centro commerciale. Altro che il caffè macchiato bollente del bar del Grande Ospedale. Altro che i prelievi nel regno di Op.

lunedì 9 gennaio 2012

La sera delle stanze chiuse

E poi ci sono le sere in cui il regno di Op ti toglie il sonno e le parole. Le sere in cui un saturimetro inizia a suonare, impazzito, da una stanza in cui stamattina, tutto sommato, sembrava andare tutto bene. Le sere in cui una madre scappa fuori a chiamare i medici, in lacrime, perche' il suo ragazzone di 13 anni, Jacopo, da giugno scorso inchiodato a una sedia a rotelle da un tumore cerebrale, ha smesso all'improvviso di respirare.

Le sere in cui i medici tornano da casa, anche se e' domenica, anche se hanno staccato il turno da un po', perche' lo hanno seguito per sette mesi, Jacopo, e non intendono mollare, non adesso, adesso meno che mai. Le sere in cui le infermiere ti chiedono, per favore, con garbo, in silenzio, di rientrare in stanza, mentre arrivano di corsa con le bombole d'ossigeno dalla rianimazione. Le sere in cui, davanti alla porta a vetri da cui non si puo' entrare se non due ore al giorno, tra mille restrizioni, si affolla un gruppo di parenti, fuori orario. E i portantini a uno a uno, in fila indiana, in silenzio, li lasciano entrare. Le sere in cui arrivano i frati francescani con i sandali e il saio e si mettono in un angolo a dire il rosario.

Le sere in cui tu non sai che fare e allora chiudi la porta della tua stanza, spegni i giocattoli musicali, la televisione, la radiolina con le ninne nanne,  mentre tuo figlio di 10 mesi ti guarda, non capisce e pero' fa silenzio e si mette buono buono a giocare sul letto con il suo massaggiatore dentale.

Erano stati insieme in stanza, una volta, Angelo e Jacopo, la scorsa estate. Lui era gia' trasfigurato dalle cure al cortisone e annebbiato dalla massa alla testa. In testa un berretto della Roma con la visiera. Addosso una tuta da ginnastica, ai piedi le snickers, come tutti i ragazzi della sua eta'. "Ce ne siamo accorti quando a scuola ha iniziato a saltare le ore di educazione fisica dicendo che era stanco. Lui che era uno sportivo, se fosse stato tutto a posto, non lo avrebbe fatto mai", mi disse la madre allora, quando Jacopo era stato appena operato ed era dura ma c'erano ancora buone speranze che con la radioterapia e un po' di fortuna le cose potessero migliorare. Poi, pero', sempre peggio. Fino a stasera.

Una sera cosi', qui nel regno di Op. A porte chiuse e cuore in tempesta. Tutti a pensare alla stanza 8. Tutti a chiedersi se stanotte, mentre noi ci rigiriamo nel letto, Jacopo ce la fara'.

venerdì 6 gennaio 2012

Un passaggio dalla Befana

Sono entrate stanotte alle 2. Come sempre hanno cercato di fare piano, per non svegliarci, noi che in ospedale dormiamo sempre poco e che la mattina sembriamo donne-panda, lì ad armeggiare con i correttori di occhiaia per mascherarci un po' davanti ai figli e mariti. Come sempre hanno controllato la pompa di infusione, come sempre hanno sistemato le terapie con in mano la lampadina tascabile per non fare troppa luce, come sempre hanno dato un'occhiata al "bilancio dei liquidi", il foglio dove segniamo quanta pipì fanno i nostri figli, che per chi fa chemio significa quanto veleno buttano via.

Le infermiere della notte, però, questa volta si sono fermate ancora un po'. Hanno preso due calze piene di dolci, poi un pacco regalo con sopra scritto "Angelo" (o Astrid, o Martina, o Manuel) e lo hanno posato ai piedi del letto. "E' arriva la befana", hanno sussurrato, dandomi una carezza sulla spalla, quando il rumore della carta da regalo sul materasso mi ha fatto fare un salto di botto, evocandomi chissachè. "Adesso dormi", mi hanno ordinato, con la premura di sempre, che se non avessi loro non so come farei, spegnendo la lampadina tascabile e scivolando via.

Così noi che abbiamo fatto Natale e Capodanno a casa e siamo rientrati nel regno di Op da poche ore, con la febbre alta e le solite paure in tasca, ci siamo sentiti accarezzati un po' dall'ultima delle feste, raggiunti anche qui, per dolcezza e per miracolo, dalla magia semplice e gratuita della Signora con la scopa. E quando Angelo si è svegliato, abbiamo scartato il brontosauro di plastica verde dai mille suoni e rubacchiato cioccolate di ogni tipo dalle sue calze. Fatto fotografie, parlottato con i vicini di stanza sulle nostre befane di quando eravamo bambini, intravisto i piccoli nelle stanze armeggiare con i trenini, giochi da tavola, puzzle, peluche di Hello Kitty e Mennie tuttofare.

Ora aspettiamo i ragazzi delle associazioni di volontariato che verranno a portare altre calze, altri doni e un po' di canzoni e giochi da fare insieme e musica e allegria. E ci crediamo davvero, un minuto o un istante, che la signora con la scopa spazzi via un po' del nostro destino complicato e ci dia un passaggio fuori di qui, prima o dopo, liberandoci dalle flebo e dalle stanze di isolamento, portandoci insieme a tutti gli altri bambini a fare un giro sulla giostra di piazza Navona, in mezzo alle bancarelle, ai turisti e a mille altre persone. Un passaggio di ritorno nella vita che avevamo e volevamo, prima di accontentarci di questa. E restarci aggrappati, a questa, con le unghie e con i denti, senza mollare la presa.
Hasta la Victoria, qui nel regno di Op.

lunedì 2 gennaio 2012

Il muro di Berlino

L'anno nuovo e' cominciato da una manciata di ore, ma di nuovo c'e' ben poco nel regno di Op e noi siamo sempre al solito posto. Parcheggiati sulla poltroncina gialla e blu con i manici verdi in fondo al corridoio. Accampati con il passeggino carico di giocattoli, la borsa piena di biberon e bottiglie di latte, salviettine, ciucci di riserva, tutine di ricambio, scatole di medicinali.

Oggi, infatti, ci tocca il day-hospital di Op. Come ogni tre giorni e come per gran parte delle famiglie in cura. E, al solito, già da ieri sera abbiamo iniziato a prepararci psicologicamente alla cosa. Perchè per reggere il day hospital di Op ci vuole davvero un fisico bestiale. Stamattina, come sempre, ci siamo svegliati  all'alba, abbiamo imbustato Angelo nella sua tutona da yeti delle nevi a prova di gennaio e alle 8 in punto eravamo gia' al decimo piano del Grande Ospedale, nella parte di corridoio dedicata ai ricoveri-lampo. Il tempo di un prelievo, di una terapia, di una trasfusione, di una visita di controllo e poi a casa. Insieme a noi, un'altra decina di famiglie compagne di viaggio. Papa' assonnati con pelouche e macchinine in mano, mamme intente a risistemare bodini e camicine nei pantaloni dopo il passaggio in medicheria, qualche nonno piazzato a custodia di giacconi e borsette sulle sedie dello stanzone con i letti. E poi i bambini. Sparsi per le sale giochi dell'undicesimo piano, sguinsagliati per il corridoio a spingere le flebo sui treppiedi di ferro con le ruote o spaparanzati - si fa per dire - sui letti, davanti ai cartoni animati trasmessi dai televisori al plasma del Grande Ospedale, passatempo indispensabile per far volare via le ore necessarie all'infusione dei farmaci o delle sacche di sangue.

Alla fine del corridoio, c'e' la grande porta a vetri blu e bianca che le infermiere chiamano "il muro di Berlino" e che separa gli ambulatori della Berlino Est dalla Berlino Ovest del reparto vero e proprio, dove finiscono i bimbi ricoverati. I piccoli del day hospital non possono varcare la porta del reparto e viceversa i degenti del reparto non possono affacciarsi in day hospital. Chi e' ricoverato infatti e' in stretto isolamento: qualcuno ha la febbre alta per le tossicita' dovute ai valori ematici troppo bassi post chemioterapia, qualcun altro aspetta in ambiente protetto un intervento atteso per mesi,  qualcun altro ancora e' appena arrivato e si aggira un po' spaesato in attesa di una diagnosi, sballottato tra lastre, risonanze e tac. E comunque i bimbi di Op passano da Est a Ovest in un istante. Basta 37.5 di febbre, per dire, e i medici dispongono un ricovero per accertamenti e per fare gli antibiotici in vena, perché per i bambini oncologici anche un forte raffreddore, come quello che ha Angelo in questi giorni, è un pericolo. Una spia d'allarme impossibile da sottovalutare, in quanto potenziale ostacolo alle venefiche terapie salvavita. 

Noi che oggi siamo nella Berlino Est del day hospital siamo stati tutti a lungo e a turno anche nella Berlino Ovest del reparto e anche se sembriamo campeggiatori d'inverno spettinati dalla scomodità e dall'insofferenza e trifolati dalla noia e dalla claustrofobia sappiamo che con un po' di fortuna, se la visita medica e' a posto e l'osservazione dopo la terapia va liscia, entro il tardo pomeriggio ce ne torniamo a casa. Sappiamo, insomma, che siamo l'ala fortunata della baracca, checché ne dicano le infermiere del day hospital, per scherzare con le colleghe di reparto. Così quando incontriamo i genitori dei bambini che stanno al di là del muro, mentre passano a Est per predere l'ascensore che porta su al terrazzo o alla cucina, capita che ci sentiamo anche un po' in colpa.

In colpa davanti alla mamma di Astrid, ad esempio, che stamattina preparava stancamente la pasta col pesto, mentre alla figlia, come sempre, anche questa settimana, come da 8 mesi a questa parte, toccheranno almeno 5 giorni di ricovero e solo il week end a casa. O davanti allo sguardo triste e angosciato del papà di Adele, che arriva da Taranto, ha 3 anni e un tumore di Wilms al rene di 10 centimetri da operare d'urgenza a fine settimana, perché non risponde alle chemioterapie. O davanti alla nonna di Bernardo, che sistemava la roba bagnata e strizzata sullo stendino, fresca di lavatrice. E che insieme alle altre figlie, al marito e ai consuoceri non molla un istante mamma Serena, che dal letto di Bernardo non si stacca da fine agosto e che tra Natale e Capodanno ha dovuto sopportare altri tre interventi sulla pelle del suo bambino. "Che fanno, con Angelo, lo ricoverano per la tosse?", mi ha chiesto a un certo punto Nonna Coraggio mentre con una molletta agganciava la manica di un pigiama. "No, signora, abbiamo fatto i raggi ed è a posto. Basta un po' di aereosol. Dopo la chemio torniamo a casa", ho risposto stringendo le spalle, quasi a chiedere scusa.
Poi rossa di una strana vergogna, ho salutato con la mano, sgattaiolando via.