domenica 11 novembre 2012

Marianna e la principessa nel castello di fuoco

La storia che ho l'urgenza di raccontare stasera mi arriva in una mail, come un segreto, molti giorni fa. Molti giorni fa, però, io avevo iniziato il mio nuovo lavoro, il primo lavoro della mia seconda vita, il primo da quando siamo tornati a casa dal Regno di Op. E così è finita che quella mail, per distrazione, fretta e disavventura io non l'abbia aperta. Fino a pochi minuti fa. Poi l'ho aperta e ho letto la storia.

Non so bene di che regno sia questa storia. La ospitiamo in questo, speriamo solo per un po', perché è una storia di malattia che non ha nome e non ha casa. E' la storia di Marianna, che ha quarantacinque anni e fa la bibliotecaria in un pezzo di Puglia che si chiama Terlizzi. Più precisamente, è la storia di sua figlia, che di anni ne ha sedici. E' la storia della sua febbre, orfana di un nome e di un perché.

La figlia di Marianna aveva 13 anni e stava finendo la terza media, quando questa storia è cominciata. Febbre alta, altissima, improvvisa. Quarantuno, anche quarantadue. Pronto soccorso, medicine, flebo. Ma poi di nuovo: febbre alta, improvvisa. Febbre da impazzire.

La febbre va e viene, senza logica, senza cadenza regolare. Si alterna in modo confuso a stati di assoluta normalità. Poi, da niente, sale. Libera brividi e bollore, paura e confusione. Questo ottovolante tremendo e incomprensibile va avanti da tre anni, senza sosta, senza spiegazione e senza soluzione.

Una volta le hanno detto che forse era una violenta allergia a dei funghi presenti in casa. Allora Marianna e suo marito hanno cambiato casa. Sono andati a vivere in una villa, l'hanno ripulita da ogni possibile pericolo per la ragazza. Non è servito a niente. La febbre è tornata. Come un destino, l'ombra di qualcosa che non si riesce a capire nè vedere.

Ricoveri, esami di ogni tipo, alcuni molto costosi e non rimborsabili dalla Asl perché non si rimborsa una cosa che non ha un nome. Viaggi per l'Italia, momenti di disperazione, paura di morire. Ma anche tentativi, incredibili, radiosi di normalità. La figlia di Marianna fa il liceo classico, per dire. Frequenta le lezioni al computer, va a scuola quando può, per i compiti in classe e le interrogazioni. Sua madre è l'anima di una piccola biblioteca che, dicono, da quando c'è lei, funziona come la succursale di un qualche stato svedese. Aggrega associazioni, scuole, studenti, anziani attorno ai libri, alle pagine, ai racconti, mentre il resto del mondo perde il suo tempo davanti alla tv.

So che Marianna e sua figlia hanno letto il mio libro e passano da questo blog, qualche volta. So che ne hanno tratto un misterioso conforto e questo mi ha riempito di emozione e anche un po' di paura. Non so bene cosa posso fare per loro. Non so bene cosa dire a questa ragazza, costretta a una vita sotto sequestro di qualcosa che arriva come un inganno e le stringe la gola.

So però che questa famiglia è un esempio. Di resistenza, di amore per questo mondo, di mancata resa alla rabbia e alla rassegnazione. So che questa famiglia è una delle tante famiglie ostaggio di una malattia orfana: di diagnosi, di etichetta, di cure.

Forse qualcuno, passando da qua, ha una storia simile. Forse da qualche parte c'è qualcuno che ha attraversato un labirinto del genere e poi ha trovato una porta d'uscita e può scriverci, dire anche a noi come si fa, così noi lo raccontiamo a Marianna e a sua figlia, liberando questa principessa adolescente dal suo castello di fuoco. Sarebbe bellissimo, incredibile e insperato.

Intanto prendiamo appunti, da questa storia e da questa vita. Per stringerci a questa resistenza esemplare, trarne coraggio e forza. E per non sprecare tutta la libertà che abbiamo noi altri, con i nostri 36.5, le nostre uscite serali, la domenica al parco, le riunioni di lavoro che non finiscono mai e non ci danno nemmeno il tempo, a volte, di leggere le mail.

Ted Talk sul Regno di Op: il testo dell'intervento

Mio figlio ha 19 mesi. E ha una cicatrice sul cuore. Non è una metafora. Non è letteratura. Non è un modo ad effetto per iniziare questo discorso. Mio figlio questa cicatrice sul cuore ce l'ha davvero. È fatta da tre punti, disposti a triangolo. L'estremità superiore del triangolo è quel che resta di un piccolo foro. Invece i punti sotto sembrano delle piccole bacchette, di mezzo centimetro l'una. Parallele. 

Su quel triangolo, fino al giugno scorso, era appoggiato il suo cvc. Cvc è una parola che le madri non dovrebbero imparare mai. Io però l'ho imparata molto presto. L'ho imparata che ero madre, per la prima volta, da poche settimane. Cvc significa catetere venoso centrale. È una specie di coda di plastica azzurra, cucita sul petto dei bambini che devono fare chemioterapia. A mio figlio questa coda azzurra sul petto è spuntata che aveva compiuto due mesi da poco. 

Era successo che una mattina, come spesso facevo da quando era arrivato, l'ho portato al consultorio familiare che c'era di fronte a casa mia, nella periferia di Roma. Avevo iniziato a frequentare quel consultorio poche;settimane prima del parto. Più per la sua posizione che per altro. Attraversavo la strada e ce l'avevo di fronte. Era il posto più comodo dove fare il corso prenascita. E così ci sono andata, senza molte aspettative o pretese. Prima di allora i nostri consultori pubblici non sapevo nemmeno esattamente cosa fossero, cosa ci si facesse dentro a parte pap test o interruzioni di gravidanza. Ce li raccontiamo un po' così, i consultori. Anche a sinistra. E sbagliamo. 

In quel consultorio ho conosciuto un'ostetrica. Ha più o meno la mia età, si chiama Chiara ed è la mia ostetrica salvavita. Mi ha seguito prima del parto, con grande serenità. E quando Angelo è nato – mio figlio si chiama Angelo si sono scelti all'istante. Chiara una volta a settimana, insieme alle sue 
colleghe gestiva uno spazio in quel consultorio, dedicato alle mamme che avevano fatto il corso preparto. Si stava lì, si parlava, si imparava ad allattare al seno e ci si abituava all'idea di essere entrati in una nuova vita, fatta di pannolini, biberon, poppate, notti senza sonno. Era tutto nuovo, incredibile eppure così straordinariamente normale. E io mi sentivo più o meno così: in una vita nuova, incredibile e straordinariamente normale. 

Finché Angelo non ha iniziato a piangere un po' più spesso. Poi a vomitare più spesso. E poi a perdere peso. E una mattina Chiara mi ha preso da parte. Lei teneva il peso di Angelo su una specie di tesserina. Lì in quel consultorio pubblico di periferia -uno di quelli che nel Lazio la signora Renata Polverini voleva chiudere con i sigilli – erano moto più precisi che dal pediatra a pagamento. “Devi andare a fare un'ecografia. Forse Angelo ha una stenosi del piloro. O qualcosa alla pancia. Io farei un'ecografia”, mi ha detto. Era la fine di maggio, fuori c'era il sole, io ero una delle persone più felici della faccia della terra. Non mi mancava niente. Quell'ecografia era solo un puntino in mezzo a tutta quella felicità. 

E così andai a farla il pomeriggio stesso. Nell'intento, più che altro, di cancellare quel puntino. Ma fu lui a cancellare tutto il resto. Non era un puntino. Fu subito chiaro appena un ecografista sconosciuto con i baffi neri e folti appoggiò la sonda sulla pancia di Angelo. Poi la sollevò di botto e si mise 
le mani nei capelli. “E' una massa di otto centimetri e mezzo, dovete scappare al pronto soccorso”, disse a me e al mio compagno, Marco. E noi scappammo al Policlinico Gemelli, dove Angelo era nato poche settimane prima. 

Molte persone mi chiedono com'é stato quel momento. La sensazione fu quella di un incidente. Di uno schianto sul guardrail. Solo che non ci trovammo ribaltati sull'asfalto, ma sbattuti -senza scelta e senza preavviso in una stanza con un letto, un tavolo, un piccolo frigorifero, un bagno al decimo piano di quel Grande Ospedale. Il decimo piano. L'ultimo, il più nascosto. Quello dove nessun bambino, se ci fosse una qualche logica nelle cose, dovrebbe finire mai. Quello del reparto di oncologia pediatrica, un posto 
così impronunciabile che io ho preso a chiamare in un modo tutto mio e che ancora oggi, per me, è il regno di Op. 

E lì, nel regno di Op, tutto ha iniziato a rotolare veloce. Abbiamo preso a firmare consensi informati su qualunque cosa. Tac, risonanze, trasfusioni, biopsie. La diagnosi è arrivata molto presto. Senza sconti: fibrosarcoma addominale. Un raro tumore alla pancia, impossibile da prevedere e da spiegare. Era lì, comunque. E sembrava una condanna a morte, una sentenza senza appello. 

E allora di colpo si è spento l'interruttore sulla vita che io e il Marco avevamo costruito, immaginato e sognato negli ultimi 12 anni insieme. All'aria tutti i fogli con sopra i nostri progetti, disegnati insieme con il righello e con il compasso, come fanno in fondo tutte le coppie del mondo. L'estate al mare 
con i nonni, l'inserimento all'asilo nido, le gite al parco con i figli degli amici. Tutto finito, di colpo. E una scritta, improvvisa, a lampeggiarci davanti: nostro figlio, appena nato, poteva già morire. 

Le chemio sono iniziate quasi subito. Le infermiere entravano in stanza portando delle enormi siringhe senza ago. Siringhe giganti, di plastica, avvolte nella carta argentata, quella che si usa per coprire la lasagna in forno, la domenica. La stessa, identica carta argentata. Le agganciavano alla codina azzurra, avvitandole all'estremità del cvc, e poi spingevano piano piano il pistone. Tu pensavi solo: perché non a me, che magari posso sopportarlo? Perché a mio figlio? Proprio a mio figlio? 

Per fare tutto questo le infermiere indossavano questi guanti azzurri. I bambini del Regno di Op li adorano, i guanti azzurri delle infermiere. Li chiamano "i guanti dei Puffi", perché sono proprio di quel colore. Color puffo. Noi grandi invece invece appena vediamo i guanti azzurri ci facciamo scuri in volto, perché sappiamo che sono i guanti usati per le chemioterapie. Guanti altamente isolanti, che anche i genitori devono indossare poi, per 24-48 ore dopo le chemio dei figli, per lavarli o per cambiare il pannolino. Mi facevano paura, i guanti dei puffi, quando abitavo nel Regno di Op. Mi ricordavano che ero in un campo minato, in cui era pericoloso anche toccare le cose. In cui dovevo proteggermi anche dalla pelle di mio figlio. E questo è stato molto difficile da accettare. 

Poi ci fai pace, con le chemioterapie. La paura la perdi. Diventi bravo a chiuderla in un armadio e a buttare la chiave. Sorridi alle infermiere che entrano in stanza con in mano le siringhe giganti. Gli vuoi bene, a quelle siringhe. Con dentro i veleni salvavita che ti restituiranno tuo figlio. Fanno bene a coprirle con la carta argentata, a proteggerle, a usare i guanti dei puffi. 

Ci fai pace perché lentamente impari che un tumore di 8 centimetri si può sciogliere come ghiacchio. E che il Regno di Op non è un braccio della morte, ma un posto dove si possono guarire i bambini e dove forse con un po' di pazienza, un po' di fortuna, guarirà anche il tuo di bambino. Non tutti ce la fanno. Ci sono, a volte, delle sere in corridoio, che noi chiamiamo “le sere delle stanze chiuse”. Le infermiere passano e ti chiedono di chiudere la porta della stanza. E lì capisci che qualcuno non ce l'ha fatta. E ogni volta ti si rompe qualcosa. Però sette bambini su dieci escono da lì e campano cent'anni. Nove su dieci nei casi delle leucemie. Bisogna concentrarsi su questo. C'é una via d'uscita, proprio come dal Regno di Oz. Dopo l'uragano, in qualche modo, si può tornare a casa. 

Se ti concentri su questo, succede una cosa bellissima. Succede che la smetti di startene chiuso tutto il giorno in camera, come se fossi in prigione. Succede che prendi tuo figlio in braccio, con l'altra mano spingi il treppiedi di ferro con le ruote sotto e la flebo sopra e ti vai a fare un giro in corridoio, a conoscere le altre persone che hanno fatto il tuo stesso incidente e si sono schiantate sul tuo stesso guardrail ma che come te stanno provando a sciogliere il ghiaccio che abita nel corpo dei loro figli. 

Succede che ti metti a giocare a Monopoli in ludoteca con gli altri bambini soldato, che però a parte le teste rasate restano bambini uguali a tutti gli altri. Anche quando sono malati: restano prima di tutto bambini. E allora ti metti a cucinare i pop corn per loro con le infermiere, a guardare i cartoni, a giocare con la play station, a bere caffè con le altre famiglie con cui magari devi dividere la stanza. A parlare con i medici, senza lasciarti spaventare dal camice bianco. 

Sono incredibili, i medici del regno di Op, che scelgono ogni giorno l'inferno, cercando di spegnerne l'incendio, come fossero pompieri. Noi ci capitiamo per uno strano caso, in quel decimo piano del Grande Ospedale. Loro scelgono di stare lì, ogni giorno. E io dico sempre che dovremmo farlo un applauso ai pompieri. E dovremmo spiegarlo ai bambini chi sono questi signori che entrano in stanza ogni mattina, gli tirano su il pigiama per toccare la pancia e sentire il torace, li fissano sempre a lungo, come a cercare qualcosa. Una risposta, un segreto. E qualche volta ce la fanno, giuro. Li ho visti con i miei occhi. Ce la fanno a trovare la chiave per liberare i bambini dal regno di Op, rimandarli a casa, a scuola, al catechismo, a giocare a calcetto e al campeggio con gli scout. Dal regno di Op si esce, dicevamo, e se si esce è perché sono stati loro a inventarsi qualcosa. 

Comunque, a un certo punto, succede che nel Regno di Op va meglio. Va meglio, quando tiri su la saracinesca che avevi abbassato con tutto il resto del mondo, convinto che chiuderti nel tuo dolore potesse proteggerti.
Va meglio, soprattutto, quando smetti di vergognarti di farne parte. Di essere raro. Genitore di un bambino raro. Un aggettivo che ti perseguita dall'inizio, uno strano marchio a fuoco che impari a sopportare tuo malgrado. Perché essere rari è una bella responsabilità. Essere genitore di un bambino raro ancora di più. 

Solo che 1500 bambini rari all'anno, se li metti insieme, si sentono meno rari e meno soli. Allora ecco una cosa intelligente, utile da fare, ho pensato a un certo punto. Smettere di vergognarsi della malattia dei nostri figli. Uscire da questo strano disagio. E da questo apartheid. Fare outing. Senza esibire la malattia, ma parlandone, raccontandola e spezzando il tabù che la circonda, soprattutto quando la contamina il terreno della felicità obbligatoria dell'infanzia. L'infanzia di plastica propagandata dalle pubblicità della Chicco che però qualcuno aveva vietato ai nostri figli. 

Bisognava raccontarli, i nostri figli. Senza paura e senza fare paura. Tirarli fuori in qualche modo dalla riserva indiana di quell'ultimo piano nascosto del Grande Ospedale da cui non potevano uscire e in cui non poteva entrare nessuno senza mascherina. Quel necessario isolamento fisico non poteva, non doveva tradursi in isolamento sociale e noi genitori potevamo fare qualcosa per uscire da quella linea gialla del parcheggio invalidi dove avevano confinato noi e i nostri bambini. 

Invalidi civili minori, sono tecnicamente i bambini oncologici. Ma invalidità è una parola tremenda. Bisognava dimostrare in qualche modo che i nostri figli erano e sono validi a stare in questa società. Dentro e non ai margini. È per questo che ho aperto un blog sul Regno di Op e poi ho accettato che diventasse un libro. Un diario dei nostri mesi in trincea. Che raccontasse dei bambini e dei ragazzi che abbiamo incontrato, del lavoro incredibile dei medici, delle infermiere, delle altre famiglie... 

Perché attraverso le parole si potesse conoscere anche questa infanzia. Perché si potesse violare virtualmente l'orario delle visite. Perché si potesse parlare pubblicamente dei nostri ospedali pubblici e di quello che di incredibile accade dentro. Perché si potesse raccontare che ci sono genitori costretti a trasferirsi dal sud al nord per curare al meglio i propri figli, e non è giusto. Perché si potesse dire che per curare i propri figli alcuni genitori devono lasciare, oltre alla propria città, anche il proprio lavoro. E meritano di non restare soli. Meritano assistenza, servizi sociali pubblici e gratuiti come 
case accoglienza e assegni di sostegno. 

Perché si potesse dire che c'é un farmaco usato nella terapia di mantenimento della leucemia. Si chiama Purinethol, é un farmaco salvavita ed e' stato carente in Italia per 5 mesi, per tutta l'estate. Ora va meglio, ma per 5 mesi le famiglie non lo trovavano e per la paura di restare senza si mettevano in macchina e andavano a comprarlo in Svizzera, oltre il confine, pagando una scatoletta per tre volte il suo prezzo. E la nostra politica, il nostro ministro alla Salute non hanno saputo evitare tutto questo. L'angoscia, l'incertezza, i viaggi della speranza in nome del diritto alla cura. 

Il blog sul Regno di Op ha superato le 100 mila visite, é diventato lo spazio in cui una comunità -quella delle famiglie dei bambini oncologici -si ritrova, si tiene stretta ma soprattutto cerca il contatto con l'esterno, senza paura di toccarne la pelle e di farsi toccare. Senza guanti di plastica. Perché non esiste una separazione tra la società dei sani e quella dei malati. Cosi' come non esiste una separazione tra nord e sud, italiani e stranieri, ricchi e poveri. Siamo tutti validi a stare in questo mondo. Nessuno escluso. 

Concludo dicendovi che mio figlio ha fatto 7 cicli di chemio e ha subito un intervento che ha riaperto la sua partita con la vita. Non è guarito. Ci vorranno cinque anni per dire se davvero sta bene. Ma intanto sta bene. Ha tolto il cvc, non fa più le siringhe nella carta argentata, non vive più in un reparto di isolamento, può vedere altri bambini e presto come tutti gli altri bambini andrà all'asilo. 

Anche io e Marco stiamo abbastanza bene. Ci siamo sposati. Siamo tornati a lavorare. E ci sono dei giorni in cui riusciamo a dimenticarci di tutta questa storia e a sentirci una famiglia normale. Ma io non smetterò mai di raccontarla, la nostra trasferta nel Regno di Op. Perché ho imparato che il dolore non va mai rimosso, nè sprecato. Esiste sempre un punto di leva per ribaltarlo, il dolore, e trasformarlo in qualcos'altro. E il mio dolore è al servizio di tutte le 1500 famiglie di bambini oncologici che ogni anno, in Italia, vanno avanti a denti stretti e chiedono servizi, diritti e ascolto.