mercoledì 28 dicembre 2011

Un Natale normale

E così il Natale è arrivato anche per noi. Per noi che abbiamo passato gli ultimi mesi tra casa e ospedale. Per noi che avevamo una vita tranquilla e un giorno l'abbiamo persa senza una spiegazione e senza che nessuno ci chiedesse scusa. Per noi che prima eravamo famiglie come tante altre: la casa, il lavoro, le bollette a fine mese, il cinema, le gite fuoriporta nel week end. E poi dopo più niente. Terremotati dalla malattia dei nostri figli, costretti ad affrontare una salita improvvisa e interminabile, a sospendere ogni possibile leggerezza, a dimenticare ogni pensabile normalità, a violentare ogni ipotesi di quotidianità programmabile. Per noi che abbiamo smesso di contare il tempo con i giorni e le settimane, perché andiamo "a cicli". Ogni ciclo di chemioterapia è un pezzo di incubo che con sollievo si stacca, un pezzo di speranza di farcela in più. 

Ci abbiamo provato, a passare un Natale come tutti gli altri. I medici e le infermiere del regno di Op hanno tentato con ogni mezzo di darci una mano, cercando di incastrare le terapie di tutti in modo che almeno il 24 e il 25 la maggior parte di noi fosse a casa e non nel Grande Ospedale. Ma non è andata esattamente così. Non è stato per niente un Natale normale.

Un Natale normale è quando puoi uscire anche se fa freddo o entrare in un centro commerciale a comprare gli ultimi regali, senza la paura che il tuo bimbo immunodepresso a causa delle chemioterapie possa prendersi qualunque forma di virus o malanno. E' quando puoi organizzare un cenone con tutte le persone che vuoi senza chiedere agli ospiti di mettersi la mascherina e lavarsi le mani e poi passarle al disinfettante. E' quando tuo figlio può ruzzolare sotto l'albero insieme ad altri bambini senza il divieto di avvicinarsi troppo a chi va a scuola o all'asilo (ovvero tutti i bambini tranne quelli del regno di Op), perché "è pericoloso". Un'influenza per un bambino del regno di Op può far saltare le terapie per giorni o settimane e in alcuni casi questo può essere letale.

Un Natale normale è quando non devi passare il tuo tempo a spiegare a parenti e amici che se sei nervoso e scostante e pensieroso e assente è normale, perché il regno di Op ti sfinisce, e anche se provi in tutti i modi a farlo sembrare un posto normale non è proprio così. E' quando a Santo Stefano te ne puoi stare tranquillo a casa a mangiare i tortellini in brodo e gli avanzi del giorno prima, senza dover tornare in reparto per una trasfusione o per una febbre alta, o per l'urgenza di una chemio che non può aspettare. Ma soprattutto un Natale normale è quando non pensi mai che potrebbe essere l'ultimo Natale con tuo figlio e l'ultimo Natale di tuo figlio.

E' un pensiero che dura il tempo di un istante. Perché i bambini del regno di Op, si sa, sono invincibili e ce li riporteremo tutti a casa. Ma è in quel preciso istante che questo pensiero tremendo ti gela. E maledici l'albero, il presepe, il bue, l'asinello, i pastori, le pecorelle, le coccarde, le lucine e tutta l'infernale macchina del Natale normale del resto del mondo che ti circonda perché qualcuno ha deciso di tirare fuori dalla giostra bellissima e rassicurante del White Christmas e Jingle Bells proprio te, la tua famiglia, il tuo bambino innocente, così simile a tutte le altre centinaia di bambini che popolano i centri commerciali, le scuole, gli asili. Un bambino normale, se non fosse scivolato, senza colpa, un giorno non troppo lontano che sembrava un giorno come tanti, nel regno di Op.

martedì 20 dicembre 2011

Babbo Natale esiste

Il momento più bello è stato quando è arrivato Bernardo, che ha 12 anni e un tumore cerebrale rarissimo che lo incolla al suo letto dallo scorso agosto. Mamma Serena, che gli combatte a fianco senza arrendersi mai, glie l'aveva promesso che la festa di Natale organizzata ieri per i bambini del Grande Ospedale al piano terra, insieme al sindaco e al più famoso dei conduttori tv, era anche per lui. Le volontarie della Croce Rossa hanno fatto il resto. Sono passate a prenderlo nella sua stanza del regno di Op. Hanno infilato il letto in ascensore, con sopra Bernardo stretto nella sua inseparabile coperta con la faccia di zio Paperone. Poi lo hanno spinto, in quattro, lungo la moquet azzurra del piano terra, fino alla hall. Infine hanno parcheggiato il letto al lato del palco, trionfanti e commosse, con Bernardo ubriaco d'ossigeno e di vita, Serena che salutava le altre mamme ripetendo “Visto? Ce l'abbiamo fatta” e i nonni, arrivati apposta dall'Abruzzo, con in faccia, finalmente, il sorriso che avevano spento quattro mesi prima. È stato lì che la festa è cominciata davvero.

Insieme a Bernardo, c'erano anche Astrid, Martina e tutti gli altri bambini speciali del regno di Op. Finalmente “evasi” dal loro reparto d'isolamento, seduti per terra e nelle carrozzine, a due passi dal presepe e dall'albero di Natale. Davanti a loro gli attori impegnati a leggere le “Favole al telefono” di Gianni Rodari, con noi genitori sparsi per la sala a tirare un attimo il fiato, dopo settimane passate a scortarli tra Tac, risonanze e chemioterapie.

Belli i nostri bambini a rotolarsi nel Natale, come tutti gli altri. A convincersi fra loro che Babbo Natale esiste. E, siccome esiste per tutti, il 25 passerà anche da qui. Bello vederli saltellare e sgomitare per qualche regalo da portarsi in stanza. Bello, bellissimo vederli strapparsi le mascherine di protezione dalla faccia, con quell'elastico insopportabile dietro le orecchie, per sentirsi "normali". Belli i dottori, che si sono tolti il camice e si sono messi in disparte, a guardare i piccoli finalmente un po' in libertà. Con il primario che girava nella sala gremita tenendosi lontano dai riflettori e dai fotografi.  “Possiamo distribuirla qualche caramella, professore?”, gli ha chiesto una volontaria a un certo punto, a mezzavoce, sapendo che nel regno di Op le caramelle sono spesso bandite, come tutti gli zuccheri (merendine, succhi di frutta...) per via delle cure al cortisone. “Sì signora, certo, oggi va bene. Se la meritano”, ha risposto lui, con sollievo.

Bravi gli studenti universitari, in maglietta gialla con sopra Calimero, che hanno venduto i lavoretti fatti dai bambini queste settimane in ludoteca, tra una chemio e l'altra. Mentre da casa, alla spicciolata, sono arrivati anche i genitori e i bambini che, come noi, in questi giorni non sono ricoverati in reparto ma sono seguiti in day hospital. Si gelava, a Roma, ieri, e far uscire i piccoli immunodepressi e resi fragili da settimane di terapie per una festa in ospedale è stato un rischio non da poco. Ma il regno di Op è un girone infernale dove nascono amicizie inossidabili e la solidarietà non è solo una parola.

La mamma di Antonio, 10 anni, intanto, ci detto che domani se ne tornano a Terni, perché l'ultima risonanza è andata bene. Quella di Martina, 5 anni, ha risposto che è sfinita e spaventata perché dopo Natale l'attende un ciclo di farmaci molto duro, con venti giorni in isolamento in cui in stanza della piccola non potrà entrare nemmeno il padre, e di tornare a casa in Puglia non se ne parla prima di primavera, se tutto va bene. Astrid, 15 anni, passerà il Natale con la famiglia a casa e magari, se le tornano un po' di energie, si metterà a disegnare i suoi fumetti che sono una meraviglia, ma a Santo Stefano deve già rientrare in reparto per iniziare l'ennesima chemioterapia. Il padre di Gianni, che ha 11 anni ed è l'ultimo arrivato, ha detto che il ragazzo ha iniziato le cure e l'ha presa bene, anche se è il primo Natale della sua vita lontano dalla Calabria ed è un po' nervoso perché gli amici per giocare a carte e a tombola stanno tutti là.

Noi ci siamo aggirati tra le sedie di plastica, le bancarelle, gli attori di teatro e le bambine vestite da ragazze pon pon con Angelo tatuato sulle braccia del papà, imbustato in un mini-piumino da astronauta e con in testa un cappello rosso con le orecchie da cantante hip-hop, che s'intonava perfettamente con la sua postura da poppante-rockstar. Ci siamo sentiti fortunati, perché questo Natale se tutto va bene saremo a casa e anche le terapie di Angelo sono sospese per un po'. Prima di andarcene dal Grande Ospedale, però, siamo saliti al decimo piano, perché Angelo doveva mangiare e nel regno di Op, dove abbiamo abitato per mesi, un posticino per farlo stare tranquillo, in santa pace con il suo biberon di latte, glie lo trovano sempre. E poi avevamo un regalo di Natale per Michela.

Quando Angelo era in reparto e molto grave, quest'estate, Michela era appena arrivata e una volta mi chiese di insegnarle a giocare a Monopoli, in ludoteca. Io proprio non ci sapevo giocare, ma mi faceva bene stare del tempo in ludoteca con lei, mentre Angelo stava buono buono nel passeggino a guardarci. Così, ogni tanto, io e Michela, 7 anni, prendevamo le mazzette di soldi finti, inventavamo le regole del Monopoli e ci divertivano un sacco. Per esempio, se finivamo in prigione bevevamo un po' di vino dalla pedina a forma di fiasco, per consolarci. E se Michela finiva sulla casella di viale dell'Università io la convincevo a non comprarsi casa da quelle parti, perché era troppo piccola e per studiare all'università ci voleva ancora del tempo. Meglio tenere un po' di soldi da parte per andare al cinema o al luna park.

Michela ha la febbre alta da una settimana. Alla festa di Natale non è potuta passare ed è così debole, in questi giorni, che non può fare nemmeno terapia. Io e il papà di Angelo le abbiamo portato uno scatolone con una coccarda, da scartare quando starà un po' meglio. Ma è in isolamento e non siamo potuti entrare in stanza. Così abbiamo lasciato tutto a sua mamma, che si è commossa anche un po'. Dentro la nostra scatola per Michela c'è un Monopoli tutto per lei. È un'edizione per i piccoli. Al posto delle miniature con la botte di vino e la candela ci sono Trilly e i personaggi Disney a fare da pedine, con una grossa faccia di Topolino che sorride dal cartone. Quando l'antibiotico che ha in flebo farà effetto, ne sono certa, a Michela piacerà.

venerdì 16 dicembre 2011

Un applauso ai pompieri

Non so bene come si faccia a scegliere di diventare medici del regno di OP. Scegliere di passarci una vita dentro, intendo. Scegliere di sveglarsi la mattina, accompagnare a scuola i propri figli, bere un cappuccino, mordere un cornetto, sfogliare il giornale e poi andare. Scivolare nel parcheggio del Grande Ospedale, chiudere la macchina, varcare la soglia della enorme hall d'ingresso, magari bere un altro caffè, infilarsi nell'ascensore d'acciaio del Grande Ospedale, quello del "percorso arancione", spingere il tasto 10, quello dell'ultimo piano e salire.

Poi girare a sinistra, verso la porta con sopra i disegni di una foresta - le banane, le scimmie, un grosso koala, alberi con grandi foglie - tirare un sospiro, girare le chiave nella toppa della porta a vetri con la cornice blu e sopra il cartello "Reparto di isolamento - vietato entrare". E poi entrare. Ogni mattina, ogni giorno dell'anno, o quasi. Tutta la vita a contatto con la morte o almeno con la possibilità della morte di chi alla vita si è appena affacciato.

E' per questo che non li odi mai, i medici del regno di OP. Nemmeno quando entrano nella tua stanza, una sera di fine maggio, e ti dicono che tuo figlio di due mesi e dieci giorni, probabilmente, molto probabilmente, quasi certamente ha il cancro. E tu vorresti spaccare il mondo in due e poi in duemila pezzi. Vorresti incendiare tutte le porte, gli ascensori, i bar, i parcheggi. Vorresti vedere andare a pezzi tutte le famiglie con figli che bevono serenamente il loro cappuccino e il loro cornetto davanti al giornale, la mattina. E un po' d'odio lo provi, per ogni cosa. Stupidamente, indistintamente.

Eppure li risparmi subito da ogni sentimento negativo, i medici del regno di OP. Che si sono presi la responsabilità di entrare da quella porta della stanza numero 3 e di dirti la verità. Che lo hanno fatto cercando le parole giuste e tutto sommato trovandole. Che parlavano sottovoce, stringendo le spalle. Che quando sono venuti a prenderti di corsa dalla stanza per fare una lastra d'urgenza, all'una di notte, erano là accanto a te, alla tua famiglia a loro sconosciuta fino a tre ore prima, al tuo bambino di due mesi e dieci giorni. Senza mollarlo un attimo, senza spostarsi di un centimetro. Che la mattina dopo, alla tac, erano dentro la stanza con lui e ogni tanto uscivano a dire a te e tuo marito che ci voleva un po', magari potevamo andare al bar, a rilassarci un secondo, perché dopo sarebbe stata un po' dura, avremmo dovuto prendere delle decisioni un po' complicate e non aveva proprio senso stare là davanti. Tanto c'erano loro, i medici del regno di OP.

Ci sono stati sempre. Ci sono ogni mattina della loro vita, per tuo figlio, per i figli degli altri. Passano con il carrello, circondati da studenti, seguiti da due infermiere, sepolti dalle cartelline cliniche con sopra i numeri dei letti. Venti letti, venti bambini. Venti tumori diversi, venti vite appese a un filo di nylon sottile come un capello. Venti tra neonati e adolescenti, bambinetti da asilo e liceali, famiglie accampate di Palermo, Ancona, Potenza, Brindisi, Matera che si son fatte centinaia di chilometri per raggiungere il Grande Ospedale o di stranieri che non sanno nemmeno una parola d'italiano venuti dal Kosovo o dalla Romania. Persone terremotate, spaventate, sfinite. Tutte nelle proprie mani.

Ma come fanno, i medici del regno di OP a dormire la notte e a non impazzire, a scegliere per il meglio e a coprire il corpo di un bambino quando muore, a sorridere nelle pause pranzo e a restare con la testa sul collo quando un piccolo non risponde alle cure, e alla terza chemioterapia si capisce che non c'è più niente da fare e le madri e i padri del regno di OP se li guardano di traverso e chiedono "perchè"?

Dovremmo farlo, una mattina, noi mamme stravolte da un'altra notte in reparto senza sonno, mentre aspettiamo i papà che vengono a portarci una maglietta pulita, un sorriso e un caffè. Dovremmo farlo davvero: trovare il coraggio, superare la timidezza, spezzare il silenzio del corridoio verde e celeste. Lasciare per un attimo la mano dei nostri bambini, affacciarci alla porta della stanza, rivolgerci in piedi verso il carrello con i camici bianchi attorno pronti a partire verso le nostre venti vite. Poi unire le mani e battere forte. Due, tre, quattro volte. Insieme. Dovremmo farlo un bell'applauso ai medici del regno di OP, che scelgono l'inferno e cercano di spegnerne l'incendio. Dovremmo farlo, porca miseria, insieme ai bambini, magari, spiegandolo ai bambini chi sono questi signori che entrano e gli tirano su il pigiama per toccare la pancia e sentire il torace, che li fissano sempre a lungo, come a cercare qualcosa. Una risposta, un segreto, chissà.

Qualche volta ce la fanno, giuro. Li ho visti con i miei occhi. Ce la fanno a trovare la chiave per liberare i bambini dal regno di OP, rimandarli a casa, a scuola, al catechismo, a giocare a calcetto e al campeggio con gli scout. Dal regno di OP si esce e se si esce è perché sono stati loro a inventarsi qualcosa. Qualche volta, invece, perdono e si bruciano fino a farsi male. Eppure restano, tornano ogni mattina, nessuno li muove da qui. Sono bellissimi, coraggiosi e indifesi.  Anche loro un po' invincibili, nonostante tutto. Nonostante, visto dal regno di OP, il mondo sembri proprio alla rovescia. Nonostante faccia male ogni volta, faccia male sempre. Nonostante alle fiamme dell'inferno gli occhi non si abituano mai.

martedì 13 dicembre 2011

Una mattina di fine maggio

Noi ce ne siamo accorti una mattina di fine maggio. Avevo deciso di portare Angelo al consultorio di quartiere, per un corso di baby massaggio. Al consultorio eravamo di casa. Ci avevo fatto il corso pre-parto e ci portavo il piccolo dalla sua prima settimana di vita, ogni giovedì. Insieme alle altre neomamme del quartiere ci mettvamo sedute sul parquet di una piccola palestra, tra cuscinoni da allattamento, ovetti da macchina, pannolini, portaciucci e salviettine. Allattavamo i cuccioli, chiacchieravamo tra di noi e con il personale del centro: una psicologa, un'infermiera e una giovane ostetrica che ci aiutava a gestire le gioie e i dolori dell'allattamento al seno. Poi, a turno, pesavamo i piccoli su una bilancia di ferro di quelle da salumeria e segnavamo il peso dei bimbi su un piccolo tesserino di cartone che tenevamo nel portafogli.   

Erano due settimane che Angelo non cresceva. Nonostante io fossi piena di latte e lui si attaccasse al seno ogni 2-3 ore per un bel po'. Aveva preso, ogni tanto, a vomitare, ma la cosa non aveva preoccupato nè noi nè il pediatra. "Tutti i neonati vomitano, tutti i neonati possono avere un momento di fermo-peso". Quella mattina, però, al corso di baby-massaggio il piccolo sembrava particolarmente nervoso. Soprattutto se lo poggiavo pancia in su piangeva inconsolabile. Pancia in sotto, invece, si calmava, ma piombava in un silenzio troppe pensoso per i suoi due mesi di vita. A fine corso, l'ostetrica mi chiese di verificare il peso, perché il dimagrimento iniziava a sembrarle eccessivo. L'ago della bilancia segnava ancora 100 grammi in meno di sette giorni prima. "Fossi in te prenoterei un'ecografia. Temo possa essere una stenosi del piloro. O un qualche problema alla pancia. Parlane meglio con il pediatra, ma io farei così", mi disse, con aria un po' tesa.

Per un strano sesto senso, decisi di prenotare l'ecografia immediatamente. Il ponte del 2 giugno era alle porte, se avessi rimandato e aspettato la prescrizione del pediatra saremmo andati troppo in là. Due ore dopo ero in un ambulatorio privato. "C'è una massa, signora. Otto centimetri. Deve scappare al pronto soccorso". La sera stessa ero un'abitante del regno di OP.

Scoperte

La famiglia di Astrid lo ha scoperto ad aprile, per via di quella fitta alla gamba che non passava. Bustine di Oki, a ripetizione, e non passava. Via al pronto soccorso, altro antidolorifico, e non passava. Astrid zoppicava la mattina, prima di prendere l'autobus per andare al liceo. Così la madre ha deciso di andare a fondo, l'ha riportata al pronto soccorso, ha chiesto una lastra e poche ore dopo erano già nel regno di OP. Osteosarcoma al femore, 5 centimetri.

La famiglia di Michela pensava ai postumi di un brutto raffreddore, degenerato in bronchite. La piccola si lamentava, si toccava il torace. Tutti pensavano, a casa: ecco, vedi, la bronchite lo fa. Dopo rimane sempre uno strascico, lo fa. Però era passato un mese e Michela aveva iniziato a non dormire più la notte. Si ranicchiava nel letto e si teneva una mano fissa sul petto. All'ospedale di Formia hanno visto delle macchie nei polmoni. L'hanno spedita nel Grande Ospedale d'urgenza, il giorno di ferragosto, quando il regno di OP era quasi deserto. Lei gironzolava tra la ludoteca e il terrazzo con una canotta di Hello Kitty fucsia e le minuscole infradito, come fosse ancora al mare. "Vedrai che non è niente", ripetevo a sua madre, che invece aveva capito perfettamente dove si trovava e tremava come una foglia. Neuroblastoma metastatico. Dai polmoni si era spostato anche in altre parti del corpo. E al cervello.

La famiglia di Bernardo era alla casa al mare, vicino San Benedetto del Tronto. E Bernardo una mattina non riusciva nemmeno ad alzarsi dalla sdraio per quel mal di testa che lo assillava, da giorni, sempre più forte. Il fratellino lo tirava dai boxer del costume, con il pallone sotto il braccio. "Vieni, dai", lo implorava. Ma lui non proprio non ce la faceva. Lo portarono al pronto soccorso convinti si trattasse di un'insolazione. In poche ore è finito prima all'ospedale di Ancona e poi, con l'elisoccorso, qui al Grande Ospedale, nella stanza accanto alla nostra. Intervento d'urgenza al cervello per un ependimoma, un rarissimo tumore del midollo spinale.

I genitori di Martina si erano sposati una settimana prima. Festone in masseria da 200 invitati, con la loro piccola Shirley Templey a fare da damigella d'onore.  Stavano per partire tutti insieme in crociera. Poi, improvvisamente, hanno notato che l'occhio destro della bimba non convergeva più. Strabismo, dalla sera alla mattina. L'hanno portata dall'oculista di fiducia che, li ha spediti da un neurologo dell'ospedale di Brindisi. Si è reso indispensabile il trasferimento nel Grande Ospedale, a 700 chilometri da casa. E così hanno raccontato a Martina che prima di partire per la crociera avevano deciso di fare una gita a Roma, per vedere il Colosseo. E invece del Colosseo erano sbarcati nel regno di OP. A curare un linfoma di tipo B. Al nervo ottico, ma anche ai reni, alle tube di fallopio, alle ovaia, al pancreas.

La mamma di Manuel, invece, lo ha capito una sera, a cena dalla cognata. Arrivavano in tavola la pizza, i sofficini, gli hamburger di prosciutto cotto e Manuel, che è grande e grosso e a tre anni ne dimostra sei, non voleva niente. E non voleva scendere dalle braccia del papà. I cugini lo invitavano a giocare in salotto e lui niente. In braccio al papà. Diceva che era stanco e gli facevano male le gambe. La pediatra minimizzò: "signora, a suo figlio un po' di dieta male non fa. E poi sta arrivando il caldo, il cambio di stagione. E poi sono bambini. I bambini fanno i capricci". Ma passarono due settimane e una mattina Manuel lasciò tutti i biscotti a colazione e, anche se si era appena svegliato, voleva già tornare a dormire. Così la madre lo prese per mano e lo portò in un laboratorio privato di analisi, di quelli dove non serve la ricetta per fare un prelievo. "L'infermiera bucò il braccio e il sangue non usciva", racconta ancora sbalordita. "Tirava e non usciva, finchè non iniziò a uscire, piano piano, ed era sangue rosa". Da Rieti l'ambulanza li portò nel Grande Ospedale. Non era inappetenza e non erano capricci. Non era nemmeno il cambio di stagione. Era leucemia.

lunedì 12 dicembre 2011

I bambini-soldato

Astrid ha 15 anni, fa la seconda liceo e li aveva ricci, castani e lunghi sulle spalle. Li ha rasati ieri. Non è stato facile, mi dice, ma ora porta in testa un bel cappello a scacchi con una piccola visiera, alla francese, che non le sta per niente male. Maria di anni ne ha 13, fa la terza media e li aveva sfrangiati, a incorniciare il viso. Ogni sabato andava dal parrucchiere con sua mamma, come si fa al paese. Si è fatta fare una parrucca, così non si vede che li ha persi a ciocche e può mantenere il suo segreto.

Michela, 7 anni, li aveva sottili come spaghetti e neri come il carbone. Ora si accarezza la testa nuda ogni due secondi. Le hanno detto che ricresceranno e lei ogni tanto controlla che non sia già successo. Martina, 5 anni, quando è arrivata nel regno di OP sembrava Shirley Temple, con i suoi boccoli ribelli biondo oro. Ma il taglio a zero l'ha preso bene. Le hanno detto che così sta più fresca e non si è fatta troppe domande. Valeria, invece, un anno più grande, preferisce lasciarli a chiazze e ripete che lei la macchinetta in testa non ce la passa. Ha paura e sta bene così. Bene si fa per dire.

Per i ragazzi rasarsi è più semplice. Si convincono facile, non gli cambia granché. Tranne che per Bernardo, 12 anni, che li aveva a caschetto, legati a coda con l'elastico, e per farli crescere ci aveva messo tre anni. E all'inizio, quando ancora la chemio non faceva effetto, se li faceva asciugare dalle infermiere col phon, mettendosi testa in giu' e agitando la criniera.

Quando mio figlio è nato aveva la testa piena di capelli, lisci e scuri. Gli arrivavano fin sui lati della fronte e io e suo padre pensavamo fosse colpa del cortisone che avevo preso a 34 settimane, quando si era messo in testa di uscire dalla pancia prima del previsto. Capelli a ciocche e ciglia lunghissime, a spazzoletta. La prima chemio glie li ha lasciati tutti in testa, ma quando hanno aggiunto l'altro farmaco, per avere maggiori risultati, anche a lui hanno iniziato a cadere come foglie. Li trovavo sul lenzuolo, minuscoli e oleosi. Quando gli lavavo la testa, mi rimanevano a grappoli sulla spugnetta. Un neonato non si può rasare, per via della fontanella, così abbiamo aspettato con pazienza che cadessero tutti e quando è rimasto completamente senza è stata quasi una liberazione.

Nel regno di OP, infatti, i capelli dei bambini sono quasi un imbarazzo.
Un colpo al cuore soprattutto per i più grandi, costretti a rassegnarsi in fretta all'idea di essere genitori impotenti di meravigliosi e sventurati bambini-soldato.

sabato 10 dicembre 2011

I guanti dei Puffi

Nel regno di OP le infermiere, a un certo punto, indossano i guanti blu. I bambini li chiamano "i guanti dei Puffi" e ne vanno matti. Le mamme molto meno, perché sanno che quando arriva in stanza un'infermiera con i guanti blu è per portare i farmaci che servono a fare la chemioterapia.

I guanti blu sono diversi da quelli trasparenti perché, anche se sono in vinile come gli altri, non hanno la polvere dentro. La polvere è il talco che serve a infilare meglio gli altri guanti. Tutti guanti ne hanno dentro almeno un po'. Tutti, tranne i guanti blu.  "E' pericolosa quando si maneggiano i farmaci chemioterapici o quando si cambia un letto bagnato da un bimbo che ha fatto chemio. La polvere è un conduttore, bisogna stare attenti", mi spiega Cristiana, pignolissima infermiera del regno di OP, mentre monta sull'asta con le ruote la flebo con dentro la chemio per il mio bambino.

Quando ha finito preme "start" sulla pompa che carica la medicina e mi allunga una scatola piena di guanti dei Puffi, dicendomi che è obbligatorio che io li indossi a ogni cambio pannolino. Poi piazza in stanza un secchio di plastica con una grossa R sopra, su cui c'è scritto rifiuti pericolosi, dicendomi che ogni pannolino sporco del mio bambino va buttato lì. "Stia tranquilla, signora, perché la mattina passano a sigillare i secchi e li portano via", dice, convinta di rassicurarmi.

Penso che i farmaci antiblastici (che è un sinonimo di chemioterapici, più o meno) sono così potenti da non poter essere nemmeno toccati con i guanti sbagliati.  Penso che i nostri figli, nei giorni delle chemioterapie, sono così avvelenati da non poter essere nemmeno sfiorati al cambio pannolino. Mi chiedo dove finscono i bidoni di plastica con la scritta "R" che la mattina vengono sigillati e portati via. Penso che al primo ciclo di chemio di Angelo io non li ho indossati, i guanti blu. Nessuno me l'aveva detto, o ero troppo stravolta e non avevo ben capito. "Che mi sarà successo?", penso. Ma poi penso che in fondo non me ne frega granchè. 

Quando l'infermiera esce dalla stanza me li infilo, i guanti dei Puffi, e mentre li infilo li maledico e sento addosso tutta la rabbia del mondo. Puzzano di plastica bruciata, scivolano sulla pelle con difficoltà. Però mio figlio ride ogni volta che li muovo nell'aria come farfalle e allora mi sforzo di farglielo credere davvero che è tutto un gioco. Lui muove le gambine e cerca di acchiapparmi le mani. Io sudo freddo e cerco di pensare che prima o poi anche questo ciclo di chemio finirà.

venerdì 9 dicembre 2011

Camomilla e Nesquik

Gabriella avrà quarant'anni al massimo. I capelli ricci e biondi, le forme morbide, un pacchetto di sigarette sempre in tasca, la foto di Renato Zero come sfondo del cellulare. Da vent'anni, stretta nel suo camice verde, lavora nel Grande Ospedale come portantina del regno di OP. Pulisce le stanze e i corridoi e accompagna i piccoli nei loro lettini con le ruote a fare le Tac, le risonanze, le ecocardio o gli interventi in chirurgia.

"Sono l'ultima ruota del carro", ripete a tutti, imbracciando l'asta del mocho, che è più alta di lei. "Non ce la faccio più a stare qui", aggiunge, spingendo i lettini tempestati di adesivi e sepolti dai pelouches e sbuffando verso l'ennesimo ascensore che non arriva mai.

Mente due volte. Perchè Gabriella, in fondo, non lavorerebbe in nessun altro posto al mondo. Lei che non ha figli e dispensa carezze in testa a tutti, perchè "questi marmocchi so' tutti figli miei". E poi perché senza Gabriella (e Pierluigi, e Francesco, e Diana, gli altri portantini come lei) qui non sarebbe lo stesso.

Sono loro che la mattina ti danno il buongiorno. Spingono un carrello pieno di fette biscottate, microconfezioni di Nutella e barattoli gialli di Nesquik da accompagnare al latte bollente, come si fosse a casa. E sono loro che la sera passano con quel pentolone fumante, i bicchieri di plastica, la zuccheriera col cucchiaino e chiedono a mamme e bambini, sfiniti e ormai in pigiama: "camomilla?".

E, improvvisamente, in mezzo alle tante domande idiote che ci si sente rivolgere dalla mattina alla sera da tutti quelli che nel regno di OP, beati loro, non ci hanno mai messo piede, sembra arrivata, puntuale e definitiva, la domanda più intelligente del mondo.

"Camomilla?".
Certo che sì.
E domattina anche un po' di Nesquik.

giovedì 8 dicembre 2011

L'odore dei pop corn


Sono pochi giorni che vivo nella stanza numero 3 del Regno di Op. Sarà la metà di giugno, saranno le sei del pomeriggio. Il mostro che abita la pancia del mio bambino non ha ancora un nome. Lui sembra tranquillo e sorride alle sue api di plastica. Io me lo faccio bastare e passo le mie giornate a tirare il latte e sterilizzare i biberon in attesa che un qualche miracolo accada e che un qualche eroe dei fumetti venga a salvarci.

Ho scambiato il Regno di Op per una prigione. Dalla stanza 3 non esco mai, se non per bere di corsa un caffè nell'immenso e caotico bar del Grande Ospedale.

Strofino un biberon bollente con un pezzo di pannocarta mentre Angelo dorme. All’improvviso mi accorgo di quell’odore. Il mais tostato delle feste patronali, dei cinema multisala, delle serate con le amiche del liceo davanti a qualche stupido telefilm. L’odore dei pop corn, nel Regno di Op. è reale o frutto della mia nostalgica immaginazione?

Prendo il coraggio a due mani e mi affaccio in corridoio, di fronte alla medicheria. Guardo a destra, poi a sinistra. Le vedo. Ciotoline di plastica stracolme di pop corn distribuite dalle infermiere ai piccoli abitanti del Regno. I bimbi corrono verso il carrello. Ne ingoiano a mucchi, perdono dalle mani riccioli bianchi che cadono a terra. Come al luna park.

Imparo che nei reparti di Oncologia pediatrica, alle sei del pomeriggio, si fanno i pop corn, come al cinema e alle feste di paese. Imparo che esiste una ludoteca, in fondo al corridoio, con un biliardino, una radio, una pila di giochi da tavola, centinaia di libri e dvd. Vedo che i ragazzi più grandi si contendono una play station con uno strano monitor a forma di palla da basket, da piazzarsi davanti al letto per far passare più in fretta trasfusioni e chemioterapie.

Realizzo per la prima volta che in quell’angolo del Grande Ospedale si curano i bambini. Non i malati. Proprio i bambini. E mi sento sollevata dal fatto che i bambini, anche quando sono malati, restano sempre più bambini che malati. Con i loro pop corn, i loro disegni, le loro partite al biliardino e alla play.

Meno male, penso. E sento un po’ meno dolore.

Betadine

"Si toglie con l'acqua calda. Devi mettere un po' di detersivo sulla macchia, sfregare forte e tenere in ammollo per almeno un'ora in acqua bollente. Poi strizzi, butti in lavatrice e passa". Passa, il betadine, assicura Michela, mamma di Giorgio, due anni e una leucemia scoperta per caso da una maestra, all'asilo. "Passa", mi ripeto a bassa voce, e guardo interdetta la macchia rosso-ruggine lasciata dall'infermiera sul body di mio figlio Angelo, che ha due mesi e mezzo e un fibrosarcoma addominale scoperto per caso da un'ostetrica, al consultorio.

Pensavo fosse sangue, questo betadine. Sangue dappertutto, pensavo. Già alla prima medicazione del suo minuscolo CVC, il catetere venoso centrale che gli hanno cucito sul cuore per fare i prelievi e le chemioterapie. Una codina blu al centro del petto che è il segno di riconoscimento di tutti i piccoli finiti prigionieri nel regno di OP, il reparto di Oncologia Pediatrica di un grande ospedale romano, in cui mio figlio è nato appena una manciata di settimane prima di scoprire che aveva già la morte nella pancia.

"Non è sangue, signora, stia tranquilla", assicura Serena, l'infermiera che ha appena finito di sistemare il cateterino, infagottandolo in garze piene di macchie rosse che fanno, oggettivamente, un po' impressione. Sistema un cerotto gigante sul torace del mio bambino, che la guarda con occhi enormi e già pieni di troppe cose. Si sfila un guanto, ci soffia dentro e ne ricava un palloncino, con cui distrae il pupo mentre io inizio a rivestirlo. "I grandi credono sia sangue, i bambini ketciup, per via di questa confezione arancione di plastica da cui lo spruzziamo, che sembra quella del MacDonald's", dice sorridendo. "Invece è solo betadine, un disinfettante, un germicida. Qui in oncologia lo usiamo molto, a litri, per evitare i batteri e le infezioni. E stia tranquilla che si lava via".

Siamo nel regno di OP da pochi giorni e abbiamo già imparato una parola nuova, una di quelle che le mamme e i bambini delle pubblicità della Chicco non pronunciano mai. E abbiamo anche imparato che bisogna stare tranquilli, con questo betadine.

Non è sangue, passa, si lava via.