mercoledì 22 febbraio 2012

Le pantofole e il pigiama


Corrado ha 11 anni, anche se ne dimostra almeno due in più. E' arrivato venerdì mattina a Roma. Non l'aveva vista mai, ma gli zii - con cui adesso Corrado vive, stringendosi un po' nella stanzetta del cuginetto di 10 mesi - non lo hanno portato nemmeno a fare un giro al Colosseo. Sono arrivati subito al Grande Ospedale, lo hanno lasciato nella immensa hall del quarto piano, davanti al bar, e lì Corrado finalmente ha rivisto mamma e papà.

Se n'erano andati dalla Basilicata in fretta e furia, con sua sorella Viola, che di anni ne ha 14. Via, subito. Con una mezza spiegazione. Qualche ora dopo quella visita per la scoliosi, una visita che Viola fa ogni anno, di routine. Solo che quest'anno dopo la visita niente è stato più come prima. La radiografia ha fotografato delle strane biglie sparse. Linfonodi. Due vicino alle vertebre più alte, una sotto la gola, una a due passi dal cuore. L'ortopedico ha consigliato ai genitori di mettersi in macchina e partire. Dritti e senza sosta verso il decimo piano del Grande Ospedale. Corrado parcheggiato dagli zii, salutato con un bacio in fronte e tre parole in croce.

"Abbiamo preso solo le pantofole e il pigiama, qualche maglietta a caso", ripete mamma Anna, un po' impressionata dalle teste calve dei nostri figli, in cerca però di contatto e coraggio, mentre spinge Viola ad avventurarsi nel corridoio del Regno di Op, reggendole il treppiedi con le ruote e con la flebo di acqua e sale. E noialtri genitori lì, a fare da comitato d'accoglienza, sul bordo delle nostre stanze, abituati a una vita sulla fune senza rete sotto, animali da ospedale, padroni di ogni centimetro del reparto, maratoneti del corridoio di cui Anna e Viola prendono adesso con spavento le misure.

Martina con la polmonite, Angelo con i postumi da chemio, Bernardo immobile a letto da agosto, Manuel alle prese col nuovo ciclo di cure, Astrid che finalmente sta tornando a camminare. E noi genitori che cambiamo le lenzuola, attacchiamo lavatrici al piano di sopra, facciamo avanti e dietro con la cucina comune, scherziamo con le infermiere in medicheria, parlando di valori, neutrofili e piastrine, maneggiando garze, antibiotici, pasticche e traversine.

Noi non la volevamo, qui, una come Viola. Una dolcezza da sciogliersi, gli occhiali neri e grandi, i capelli lisci e lunghi sulle spalle. L'ultimo anno alle medie, la scelta tra classico e scientifico a mezz'aria, la comitiva degli amici, le lezioni di danza, il coro della chiesa. Noi Corrado non volevamo vederlo, senza malattia e senza colpa, annoiato e tremante dall'altra parte del Muro di Berlino, nella zona del day hospital dove i parenti sono parcheggiati ed entrano a turni e a orari e dove i fratelli sono confinati in perenne attesa che arrivi qualcuno a fargli un saluto o una carezza. Perché i fratelli nel regno di Op se non hanno compiuto 12 anni nemmeno possono entrare. Mamma Anna doveva restarsene a casa, a cambiarsi i vestiti tutti giorni, dal parrucchiere ogni sabato con le amiche, a fare da baby sitter al nipotino che le abita di fronte.

Ogni nuovo arrivo nel nostro incredibile e parallelo universo è una coltellata silenziosa che rinnova il dolore acuto dell'inizio. Perché è l'inizio il punto esatto in cui nessun genitore vorrebbe mai tornare. E' il dolore dell'inizio quello che a nessuna madre, a nessun padre, a  nessun figlio e a nessun fratello  dovrebbe toccare mai. Quando perdi tutto e senza aver commesso reato finisci dentro con la tua pena da scontare. Sette mesi continuativi di cure, almeno, hanno detto a Viola. Ma qui qualcuno che è uscito prima di un anno si fa fatica a trovarlo.

Viola mi abita già nei pensieri. Inizia le terapie domani. Perderà il sorriso e perderà i capelli. Perché non può avere i 14 anni che ho avuto io? E perché la gente qui non smette mai di arrivare? Perché, continuamente, nuovi bambini-soldato sono strappati da un'infanzia qualunque, dall'adolescenza di tutti e si ritrovano delle biglie a due centimetri dal cuore, un linfoma nel sangue, una flebo al braccio, un inferno da attraversare senza poter scegliere di restare a cantare in chiesa, a studiare Pirandello, a litigare in santa pace col fratello in soggiorno per chi deve guardare la tv?

martedì 14 febbraio 2012

Goretex

Non sapevo cosa fosse il Goretex prima di quel week end di gennaio di due anni fa. Allora ero una giovane donna in precaria carriera. Il giornale in cui avevo sempre sognato di lavorare, quello fondato da Antonio Gramsci e con la striscia rossa in testa, era finito in stato di crisi e il contratto che avevo sempre sognato di avere era scaduto senza poter essere rinnovato. Nel frattempo avevo trovato una scrittura televisiva in Rai come "consulente" e facevo la precaria di lusso a duemila euro al mese in una trasmissione quotidiana del pomeriggio in cui salottavano politici, vallette e opinionisti da combattimento. Lavoravo venti ore al giorno, mangiavo male, avevo il telefonino aziendale, la partita iva e un conto in banca col segno più' davanti.

Pero' mi ero un po' persa. E siccome il sapore delle cose belle mi mancava un sacco, decisi di partire con la mia amica Flavia per Torino, a vedere una mostra dedicata al mio maestro Bobbio, a cent'anni dalla sua nascita. E a girare per i negozi di via Po, lungo i Murazzi, sotto la Mole. E a mangiare il cous cous con le polpette al sugo del Pastis.

Solo che a Torino quel week end di gennaio c'era la neve. E io la neve proprio non la so gestire. Cosi' la mia amica Flavia mi disse perentoria, prima della partenza:"Vatti a comprare le scarpe in Goretex, che col Goretex non ci puo' succedere niente".

Cosa fosse il Goretex proprio lo ignoravo. Ma senza fare troppe domande, entrai in un negozio di articoli sportivi e ne comprai un paio color sabbia. Io e Flavia ci facemmo le foto a piazza Castello con le scarpe inzuppate nei mucchi di neve, guardammo la mostra col mio amico Pietro che ci spiegava i pannelli, bevemmo cioccolata bollente con panna in un caffè' a piazza Veneto e birra chiara lungo le vie del quadrilatero romano. Poi mangiammo il cous cous da Pastis e la polenta con le salsicce in un'osteria veneta che stava li', nel cuore di Torino, non si sa perche'. E fummo spensierate e felici, col Goretex gagliardo e impenetrabile ai piedi, che ci manteneva  asciutte e invincibili.

Quando mi hanno consegnato la relazione dell'operazione che hanno fatto a mio figlio, lo scorso novembre, ero nella sala d'aspetto del reparto rianimazione dell'Ospedale dei Piccoli, il nosocomio più' panoramico d'Italia, davanti al terrazzo del Gianicolo. Mi sentivo un po' persa e disorientata, lontana dal Grande Ospedale che era stato fino ad allora la nostra casa, e lontana dal mio bambino, che mi facevano vedere dieci minuti al giorno. Un bambino che non aveva piu' il tumore, ma nemmeno la vena cava e un'altra vena che si chiama iliaca e che passa dal femore all'addome. In compenso, pero', se tutto avesse funzionato sarebbe tornato come prima, grazie a due incredibili protesi in Goretex che avrebbero consentito ad Angelo di riprendere a breve una vita normale. Muovere le gambe, ad esempio. Far battere il cuore. Cose cosi'.

Con le occhiaia da panda sul volto, quella mattina postoperatoria di novembre in cui festeggiavo la seconda data di nascita del mio bambino speciale, che sarebbe presto tornato dalla rianimazione al reparto con gli occhi spalancati e lo sguardo plastificato alla morfina, pensai al Goretex, mi chiesi chi fosse il suo geniale inventore, perche' ancora non avesse una statuetta nobel da esibire nel suo salotto e perche' non ci fosse il suo indirizzo stampato sulle protesi o sulle scarpe. Cosi', per mandargli due righe di ringraziamento, un mazzo di fiori, una lettera con dentro una poesia.

Poi i chirurghi che hanno operato mio figlio, che ho incalzato con domande sul Goretex, specifiche e ficcanti, mi hanno detto in coro e sorridendo: "Se lo scordi, signora, questo Goretex. E si goda il suo bambino".

A dire il vero io lo farei volentieri. Dimenticarmi tutto, godermi il mio bambino: e' tutto quello che voglio e sogno. Ma non e' ancora tempo. E siamo ancora nella trincea del Grande Ospedale, ricoverati per una febbre che arriva dal fegato, dicono, colpa di un farmaco che si chiama actinomicina e che pero' e' anche la venefica pozione che si sta occupando di sgomberare le ultime cellule tumorali eventualmente ancora in circolo. Oltre alla febbre epatica, abbiamo anche la tosse, che non ci fa dormire e il muco in gola che non ci fa mangiare.

Cosi' ieri, che a Roma e' tornato il sole, ma con la neve ancora per terra, accumulata ai lati dell'asfalto, dopo tre notti senza tornare a casa nemmeno per una doccia, ho tirato fuori le scarpe in Goretex color sabbia, lasciato Angelo con il papa' e fatto un giro sul mantello bianco nel quartiere del Grande Ospedale. Un'ora d'aria per rinfrescare la testa, incamerare un po' di ossigeno e tornare in stanza con i pensieri puliti e stirati. Ho infilato i piedi nelle pozzanghere e tirato calci di Goretex alla neve.

Con il Goretex non ci puo' succedere niente, ho pensato. E ho pensato che passera' anche questa febbre, questa tosse, questo freddo, questo ennesimo giro di giostra nel Grande Ospedale, a mangiare minestrina e pure' e a trascinare la flebo nel treppiedi con le ruote. Torneremo a casa anche stavolta, asciutti e al sicuro. A goderci il nostro bambino, certo. Spensierati e felici. Non ho dubbi. E' sicuro. E' per forza cosi'.

sabato 4 febbraio 2012

Le catene e i Moon Boot


Sono nata in un posto dove il mare mi entrava in casa dalla finestra. Ce l'avevo sempre davanti, fedele e sconfinato, dall'altra parte del vetro. Mi bastava aprire un po' per sentire il suo odore di alghe e di sale. E la sera, quando andavo a dormire e spegnevo la luce, la risacca delle onde sui sassi restava accesa, sempre, a dare un suono alla notte. Io la neve non la conosco dalla nascita, come diceva mia nonna del vino. Nel mio sud bagnato e salmastro non l'ho vista mai attaccarsi per terra. O forse sì, una o due volte, ma poche ore al massimo. Nemmeno il tempo di appallottolarla in un guanto.

Anche per questo sono scesa in strada, stamattina, in questa Roma surgelata e surreale, a guardare i bambini vestiti da montagna, scivolare e rialzarsi, giacca a vento e Moon Boot. Bella la neve, ho pensato un'istante, leggera come un fiocco anch'io, dopo aver bevuto il mio caffè bollente al bar, fatto una strana fila da guerra mondiale al panificio per quattro rosette, cercato invano un po' di frutta negli scaffali vuoti del supermercato. Bella la neve, davvero. Belli i bambini, a raccoglierla dai parabrezza, a scolpirla nei pupazzi davanti ai portoni. Bambini dappertutto, liberi nel gelo.

Poi sono tornata a casa, dal mio bambino di cristallo che non può uscire mai. Ho provato a spiegarglielo, dalla finestra, cos'era quel tappeto bianco srotolato sotto casa. Ma a dieci mesi, a stare fermi davanti alla finestra, ci si annoia un po'. Così ho chiuso la tenda, ho srotolato il tappeto colorato con gli animali e i suoni sul parquet, sparso un po' di giocattoli tutt'attorno e cercato di pensare ad altro. Ma la neve era nei titoli dei tg, nelle polemiche politiche, negli status e nelle foto degli amici su Facebook, nelle domande via sms dei parenti lontani. La neve degli altri, però. Così lontana, così diversa dalla neve del regno di Op.

Fredda la neve per Astrid, che dopo l'operazione al femore è ancora sulla sedia a rotelle e non è libera di prendere un autobus e di andare al liceo. Fosse nevicato a febbraio di un anno fa, magari, sarebbe uscita in strada con gli amici dei quartiere, mentre oggi è chiusa nella sua stanza a combattere con le stampelle, i farmaci, la nausea e la nostalgia.

Fredda la neve per Bernardo, che è peggiorato da Natale, ha male alla testa e non migliora. Gli hanno messo anche la pompetta del cortisone, così quando ha dolore la mamma spinge un tasto e un poco passa. Almeno quello. E almeno la Juventus prima in classifica, finalmente, campione d'inverno di un inverno che non finisce più. Bernardo la neve la conosce bene, nel suo paese in Abruzzo cade sempre, anche se da una parte c'è la montagna e dall'altra si vede il mare. E suo nonno lo ripete sempre che è una bella fortuna abitare in un posto così, anche se Bernardo non ci abita più da agosto e non si alza più dal letto da novembre e oggi nemmeno può arrivare al vetro della sua stanza d'ospedale per vedere la neve da lontano.

Fredda la neve per Martina, che in questi giorni non si può prendere nemmeno un raffreddore, perché sta per iniziare un ciclo di chemio ad alte dosi, poi il prelievo delle staminali, poi un mese in stretto isolamento, poi un autotrapianto e poi un' altra chemioterapia. Il protocollo per il suo linfoma recita così e a mamma Doriana tocca anche smettere di fumare e comprarsi l'Ipad. Perché durante lo stretto isolamento non si esce dalla stanza nemmeno per una sigaretta e si rimane da sole, ventuno giorni, senza poter ricevere visite, nemmeno dai papà. Alcuni papà rimangono per ore a torturarsi davanti a un quadrato trasparente di dieci centimetri per dieci che sta sulla porta di ogni stanza del regno di Op. Una fessura da cui possono guardare i figli e parlargli, senza però poterli toccare. Ma Martina ha 4 anni, vaglielo a spiegare perché papà non può entrare. Allora le hanno detto che per un mese è in viaggio, un viaggio importante, ma ogni giorno potrà vederlo su Skype e potrà parlarci tutto il tempo che vuole, sull'Ipad.

Fredda la neve per Michela, che ha i neutrofili quasi a zero ed è obbligata a portare la mascherina e stamattina doveva fare chemioterapia ma è rimasta bloccata a Gaeta, perché l'autostrada a Cassino era impraticabile e i treni peggio e speriamo non le salga la febbre e possa riprendere chemio lunedì.

Anche noi lunedì abbiamo chemioterapia, dopo tre settimane di pausa. E una eco di controllo che ci toglie il sonno. Speriamo che spazzino via la neve tra casa nostra e il Grande Ospedale. Speriamo che i pupazzi di neve si sciolgano, le scuole riaprano, niente di straordinario ed eccezionale ci tagli fuori dal mondo ancora di più di quanto già fuori ne siamo tagliati. 

Noi che quest'estate non abbiamo visto il mare, a ferragosto non abbiamo preso il sole, a Natale abbiamo centellinato i parenti. Noi che le nostre vite le abbiamo messe in freezer nostro malgrado e speriamo di scongelarle, prima o dopo. E nel frattempo battiamo i denti e tremiamo un po'. E cerchiamo di abituarci in silenzio al sapore della rinuncia, riuscendoci molto meglio quando qualcosa non ce la ricorda. E cerchiamo di dormire la notte, al caldo dei piumoni di casa o delle coperte marroni di pelo del Grande Ospedale. Nonostante lo strazio di vedere i nostri bambini sempre in pericolo. Sempre costretti a girare in catene. Quando abbiamo sognato per loro, come per tutti, un'infanzia in slittino, giacca a vento e Moon Boot.