mercoledì 28 marzo 2012

Il club dei quasi adulti

Sto imparando che ogni ricovero nel regno di Op annoda legami di sconvolgente intensità. Lascia entrare dal varco strettissimo della tua vita blindata e antibatterica, solitaria e antisociale, un incontro speciale, a cui fare spazio per forza. Tu arrivi in reparto trascinando valigie e buste piene di bottiglie d'acqua e pannocarta, salviettine usa e getta, spazzolino e dentifricio. Aspetti il tuo letto e il tuo turno, parcheggiato in ludoteca, davanti al viavai di carrelli, medicine e provette. Poi ti assegnano a una stanza da dividere con qualcun altro. Ti dicono il numero e cominci il trasloco, pronto a restarci anche per 7-10 giorni di fila. E solitamente trovi qualcun altro accanto al letto. Un'altra famiglia stretta tra il tavolo e la finestra, che mette in un angolo le sue cose, ti tende una mano, si presenta, fa spazio. I tuoi conviventi a tempo determinato, compagni di strada piazzati al centro del tuo dolore, con un dolore simile in pancia, che vedranno la tua faccia struccata la mattina e il colore del tuo pigiama, con cui finirai per cenare alla sera, fare i turni per andare in bagno, scambiarti la buonanotte e i tuoi segreti più profondi.  


"Scusa per la bacinella ai piedi del letto. Non dovrei vomitare, con questa terapia, ma se capita cercherò di non dare fastidio", mi ha detto a mezza voce Roberto, 16 anni ad aprile. Il nostro compagno di stanza per questo giro di giostra. Gli ho risposto con una smorfia imbarazzata, un "figurati" stretto tra i denti. E mi sono presentata a mamma Gianna, intenta con premura a fare spazio in bagno al mio asciugamani, piegando in due il suo sul passamani.


Roberto in reparto lo conoscono tutti. E' oggettivamente impossibile non adorarlo al quinto minuto di conversazione. Fino al luglio dell'anno scorso era un adolescente come tanti. Bravo ragazzo. "Figlio di famiglia", si direbbe al paese, giù a casa sua, in Basilicata, nel cuore del parco del Pollino, dove si mangia il miglior ragù di cinghiale del Mezzogiorno. Il padre, che è cuoco in un hotel a conduzione familiare, lo prepara che è un burro. E Roberto stava imparando, tra una lezione e l'altra della scuola alberghiera. L'estate scorsa, però, ha iniziato a sentire una pressione sotto l'occhio. Un giorno si è svegliato e ha sporcato il cuscino. Sangue dal naso. Lo hanno portato dal medico, trasferito a Potenza per una tac, poi di corsa nel regno di Op. Primo e secondo intervento, in endoscopia: rabdomiosarcoma. Una massa subdola e infame, tra la fine del setto nasale e la base del bulbo oculare. Dopo gli interventi ha iniziato le chemio. Sembrava tutto a posto, ma una cellula è migrata dall'altra parte, sotto l'altro occhio, e ha iniziato a moltiplicarsi ancora. Così è cominciata la radioterapia. Trentatrè sedute, di fila, senza soluzione di continuità. Per qualche settimana è sembrato tutto a posto. Poi ancora mal di testa, fitte. Altra chemio e il sospetto che la partita con il drago non sia finita.


Ho osservato Roberto a lungo, questi giorni. Ci siamo parlati e capiti, come si fa per ore con Astrid, e da poco anche con Viola, l'ultima arrivata del club dei quasi adulti. Angelo è la mascotte del reparto. Piccoli così, da queste parti, se ne vedono di rado. Loro invece sono gli adolescenti costretti a saltare i mesi più in fiore dell'esistenza. I non più bambini che non si bevono nessuna mezza verità e tempestano i medici di domande di ogni tipo. I ragazzi strappati dal muretto e dalla piazza del paese, dalle scorribande in Vespa e dalle serate in discoteca, dalle lezioni a scuola superiore, dalle serate dietro al bancone di un pub. Vanno su Internet,  sanno ogni cosa dei farmaci che le infermiere distillano in flebo, conoscono ogni dettaglio del male che li inchioda al letto e gli strappa a morsi gli anni migliori. Impedisce di botto serate a suonare la chitarra e partite di calcetto. Occupazioni di liceo e compiti in classe da sbagliare. Pizzeria, cinema, partite, playstation, telefilm. Lezioni di inglese, escursioni in campagna, nuotate al  mare.


I sedici anni violentati di questi ragazzi composti e brillanti, garbati e resistenti, silenziosi e guerrieri, che si scusano per il rumore che fanno le ruote della flebo quando devono andare in bagno, la notte, che disegnano fumetti e leggono saghe fantasy da mille pagine cercando di sognare un po', mi tormentano quasi più dell'arrivo dei bambini nuovi, che anche questa settimana ha contato due irragionevoli, insensati e ingiusti ingressi.


Penso alla mia adolescenza colorata ed esplosiva, alle mattinate a scuola, le domeniche in villa e poi allo stadio, le serate tra gli amici di sempre, le lacrime disperate per un'insufficienza al compito di greco o un'interrogazione andata male. E poi tutte le prime volte, di ogni genere e grado. Il primo bacio rubato, alla festa patronale, tra le urla al microfono dei giostrai e un chiosco di popcorn. Il primo viaggio all'estero, con mia sorella, in vacanza studio a Londra. Il primo sciopero, in corteo dalla stazione alla villa centrale, dietro a uno striscione disegnato con la bomboletta spray. Il primo mascara sulle ciglia, il primo ombretto, la prima matita sotto gli occhi. Le prime birre doppio malto. I primi concerti. I primi campeggi. I primi lavoretti estivi, a distribuire volantini o a fare animazione in spiaggia, davanti al mare.


Perché a me è andata così e non a loro? Perché Astrid non è a guardare le vetrine in centro con le amiche e Viola non può andare a fare le prove con il coro della chiesa? Perché Roberto non può starsene tranquillo al paese a imparare tra i fornelli il mestiere di suo padre? Perché ha dovuto smettere di studiare e giocare a pallone per farsi 7 ore di pulmann a settimana e venire qui, nel Grande Ospedale, a farsi avvelenare, lungo nel letto, annoiato davanti a un quiz tv?


Dispenso promesse ai miei nuovi fratelli minori, ogni volta che mi riprendo la mascotte e torniamo a casa. Ad Astrid ho promesso che appena finisce le chemio, a maggio, passo a prenderla in macchina e ce ne andiamo al parco a passeggiare, così lei sgranchisce la gamba malata e si rimette in pista e io perdo i chili di troppo accumulati in questi mesi di disordine e tormenta. A Viola ho promesso che dovessi girarmi dieci librerie troverò il dannato quarto volume della saga di Twilight che va cercando da due settimane. A Roberto ho promesso che verrà presto un tempo in cui se ne tornerà tranquillo nell'alberghetto di famiglia, giù in Basilicata. E una sera arriveremo in reception io, mascotte e papà. E lì dovrà mettermi sul fuoco il famoso ragù di cinghiale di famiglia. Al diavolo la dieta, i brutti ricordi e la malinconia. E dovrà portarmi in giro per questo famoso Pollino, di cui ormai in reparto sappiamo ogni dettaglio: i boschi, il fresco di quando scende la sera, le vette delle montagne in lontananza. Ce ne andremo per le strade del nostro sud, incontreremo gli altri quasi adulti del paese. Ci drogheremo di ossigeno e cose belle. Io, il mio giovane amico e la piccola mascotte. Accadrà.





lunedì 12 marzo 2012

Dieci mesi

Fuori c'e' il sole, un ventoso inizio di primavera, le solite mamme con i passeggini distratte dalle vetrine, gente che corre veloce senza sentire magari il sapore. Rumori, movimento, cicliche banalita'. A casa c'e' silenzio, una noia che morde le gambe, giocattoli dappertutto, appunti in disordine, libri mai iniziati per mancanza di tempo, dolore da soffocare in nome della quotidiana resistenza obbligatoria.

Niente ospedale per qualche giorno: una tregua corrosiva che ci sorprende sempre e comunque calendario alla mano, a fare calcoli numerici sui cicli di chemio a venire, le curve dei globuli bianchi che scendono e risalgono, le tac di controllo, i ricoveri del prossimo mese.

Intanto un po' di sana panchina tocca anche a noi. Sbarrati tra quattro mura, congelati in una sospensione senza data di scadenza che cerchiamo di tradurre in normalita'.

Mi sono messa a contare: sono passati dieci mesi dalla scossa di terremoto che ha fatto franare ogni cosa. Il tempo della malattia di mio figlio ha superato quello della gravidanza. L'attesa festosa di una vita di favole e l'irruzione di un incubo fatto di flebo, farmaci e quotidiana lotta per la sopravvivenza separate solo da una lingua di terra di due mesi appena, gli unici in cui sono stata una madre qualunque, con accanto un padre qualunque e in braccio un bambino unico eppure come tutti gli altri, da allattare e accompagnare al consultorio, da addormentare e portare alla Asl a fare i vaccini, a casa dei nonni, dai cuginetti la domenica, al mare, al lago, al parco o in uno di quei centri commerciali pieni di negozi per bambini, sconti dappertutto per le famiglie con bambini e bagni attrezzati con fasciatoio nell'angolo.

Ogni tanto vado su Internet e cerco statistiche sul tumore di mio figlio. Apro la pagina di google, digito "fibrosarcoma infantile", aspetto che mi compaiano davanti le stesse quattro pagine in croce che ho gia' letto decine di volte. Più' che dati e numeri cerco risposte, le stesse che mancano alle 1400 famiglie i cui bambini, ogni anno, in Italia, scivolano senza un perche' nel regno di Op.

Poi spengo il computer e mi affaccio alla finestra, a sbirciare la vita quotidiana altrui, mentre qualche giocattolo cade dal seggiolone e il latte nel biberon raggiunge la giusta temperatura.

Penso che torneremo anche noi a guardare le vetrine, a caricare valigie nel portabagagli per un week end al mare, a vestirci con la cravatta e il tailler per raggiungere un qualche ufficio e riprendere a lavorare, a montare sellini sulle biciclette e indossare tute da jogging e cuffie all'orecchio, a perdere tempo al telefono in conversazioni sulle partite di calcio e sul meteo, a mangiare al ristorante, andare al cinema, bere birra con gli amici nei pub.

Il percorso di guerra che non ammette distrazioni, ne' allontanamenti temporanei dalla nostra claustrofobica trincea, finira', prima o dopo. E noi forse non saremo mai più' spensierati e leggeri come prima. Ma torneremo felici. E meravigliosamente normali. Reduci dalla nostra infame trasferta all'inferno, certo. Pieni di lividi e bruciature.  Ma liberi dalle flebo, dall'isolamento, dalle analisi del sangue, dalle mascherine antibatteriche e dalle medicine a tutte le ore. Come tutti. A mescolare il nostro passeggino con gli altri, in strada.

sabato 3 marzo 2012

Forza Juventus

Era lunedì. Erano le 10. Eravamo in day hospital a fare i prelievi. Si è aperta la porta che separa il reparto dalla medicheria e dalla zona degli uffici. E' sbucata un'infermiera che ha sempre un sorriso per tutti. E non sorrideva. L'ho guardata. Aveva gli occhi lucidi. Ho capito. Ho fatto un respiro e mi sono stretta al petto mio figlio, ancora più forte del solito. Poi è sbucata Gabriella, la portantina, con il contenitore delle provette in mano. Aveva la testa bassa. Allora l'ho fermata. E ho chiesto. "Bernardo non c'è più, è successo ieri".

Le ho stretto forte l'avambraccio, ho digrignato i denti, mi sono di nuovo abbracciata mio figlio e gli ho dato tre baci. Poi l'ho posato nel passeggino, mi sono abbracciata il papà, lo abbiamo infilato nella sua giacca a vento celeste, abbiamo chiamato il papà di Astrid dalla sala letti e siamo andati diretti al quarto piano. Abbiamo chiesto alla reception le istruzioni per la camera mortuaria. Erano 400 metri a piedi, tre padiglioni di distanza, un po' di strada in salita da fare a piedi, nel vento. Così mio figlio se n'è tornato col padre al decimo piano, tranquillo in ludoteca. Io e il papà di Astrid abbiamo proseguito. Passo veloce, rabbia, silenzio. Un vento ghiacciato a tagliare la faccia. Il Grande Ospedale con le sue strade, i suoi palazzi, i suoi parcheggi, le sue insegne a forma di freccia che sembrava un labirinto sterminato. Dopo dieci minuti a piedi l'abbiamo trovata. Camera mortuaria maledetta: non dovrebbe essere vietata ai minori di 18 anni? Di 14, almeno?

Bernardo ne aveva appena compiuti 11. Da agosto faceva una vita d'inferno. Era passato da una spiaggia dell'anconetano al Grande Ospedale in meno di 24 ore, un giorno infuocato in cui gli era scoppiato un mal di testa insopportabile, scambiato in prima battuta per un'insolazione. Era arrivato dall'ospedale di Ancona con l'elicottero. Planato in sala operatoria, la prima e la seconda volta. La testa spaccata in due come una mela, poi ricucita. I capelli prima lunghi, con i boccoli, poi rasati a soldato. I medici dissero: "E' un tumore raro, al liquor, il liquido cerebrale che scorre dal cervello alla colonna. Ma è benigno". E quell'aggettivo piacque a tutti. Era un inno alla speranza, alla vita. Una beffa ingiusta, uno straordinario inganno. Le cure sono andate avanti per un po'. Radioterapia. Poi pasticche per bocca. Ma i giorni passavano e la malattia degenerava. Così le gambe hanno smesso di muoversi, poi le braccia, poi una massa dietro agli occhi ha annebbiato la vista, poi Bernardo si è stancato di restare aggrappato a questo incubo senza senso ed è volato via.

Serena, sua madre, è una delle creature più bianche e miti e coraggiose e straordinarie che io abbia mai incontrato nel regno di Op. Si è inventata ogni cosa per mettere le ali al figlio immobile. Portava il letto davanti al corridoio per fargli vedere il viavai di bambini, parenti e infermiere che si agitavano fuori dalla stanza. Gli caricava i cartoni animati da youtube sul computer e gli metteva il portatile sul letto, appoggiato su un vassoio, per farglieli vedere un po'. Videogiochi, libri, fumetti. E soprattutto partite della Juventus, con papà Luca a leggergli ogni mattina gli articoli su Conte, Buffon e Del Piero dalla Gazzetta dello Sport. A sistemargli la sacra maglia a strisce bianche e nere a bordo letto. Che quest'anno era l'anno buono e ci avrebbero cucito senz'altro lo scudetto.

I nonni di Bernardo non hanno mollato il nipote e i figli per un momento. Avanti e indietro, a turni, dal loro paese di 800 anime, tra il Gran Sasso e il mare. Insieme alle due sorelle di Serena e a quella di Luca. E al fratellino di Bernardo di 4 anni, Antonio, che ogni tanto si portavano insieme come fosse un cucciolo di canguro nel marsupio, a fargli dare una carezza in corridoio da mamma e papà.

La mamma di Serena, magra come un chiodo, gli occhiali grandi e il grembiule sempre allacciato, si è occupata per mesi del pranzo e della cena. Era la regina della cucina comune dell'undicesimo piano, dove si poteva incontrare a tutte le ore, a impastare la massa per i maccheroni freschi o a mescolare la crema pasticciera, a girare il sugo o a scottare la carne. Cucinava per Bernardo, finchè ha potuto mangiare da sè, ma anche per il marito, per i consuoceri e per i ragazzi. Apparecchiava con le tovagliette e le posate di ferro i tavolini delle salette d'aspetto dell'undicesimo piano. Se c'erano altre famiglie in attesa dei risultati dei prelievi o di fare una visita offriva sempre una forchettata di fettuccine o un cucchiaio di pasta e ceci. Passava il pannocarta con lo spray appena finito, lasciava tutto lindo e pinto più di prima e poi si metteva a fare i piatti, mentre la consuocera stava in un angolo a strizzare i panni del bucato e a sistemare le magliette e le mutande sullo stendino, fuori in terrazzo. I nonni maschi invece facevano cruciverba e sfogliavano riviste, sempre gentili, parlottando sottovoce, con l'aria rassegnata ma composta, un sorriso per tutti i bambini che si mettevano lì accanto a disegnare o a studiare gli esercizi d'inglese con le maestre. "I nonni soffrono due volte. Per i figli e per i nipoti", ripetevano all'unisono a chi passava a salutare.

Una famiglia scolpita nella roccia, intrecciata, schierata a falange. Dalla fede incrollabile, dai mille racconti sui pellegrinaggi fatti a piedi al santuario di San Rocco e di San Gabriele. Una famiglia ferita, violentata, terremotata, accampata. Io li guardavo con le valigie e le salviettine rinfrescanti alla mano e li amavo, mi sentivo in colpa per il mio bambino malato a cinque minuti di macchina da casa, per la diagnosi che ci avevano dato, leggermente più fausta, e per la nostra possibilità ogni tanto di fare una doccia o un giro in passeggino per i corridoi.

Quando siamo entrati nella chiesetta della camera mortuaria, io e il papà di Astrid, spettinati dal vento, nascosti nei piumini, rossi di rabbia e dolore, erano tutti lì. Gli amici bellissimi della nostra maratona sui carboni ardenti. Piegati, sconfitti, sfiniti. Eppure sempre uniti, incollati, come anelli di una catena d'acciaio. Di quelle che si mettono attorno ai macigni per non far franare le montagne.

La mamma di Serena mi è venuta incontro. Ci siamo strette. "Lo abbiamo perso", mi ha detto. "Perché?", mi ha chiesto. "C'eravamo tutti, quando se n'è andato. Tutti attorno a lui. Non mancava nessuno", ha detto a mezza voce con orgoglio da matriarca. E mi ha indicato la figlia, in fondo. Mi ha dato il permesso di avvicinarmi, facendo "vai" con la mano.

Allora ho aspettato un po'. Qualche avemaria, qualche preghiera. Ho asciugato la faccia e poi sono partita dritta verso Serena e Luca e verso Bernardo addormentato nel legno, con i suoi guanti da aspirante Buffon ai piedi. Luca come sempre non ha detto niente. Gli ho dato un bacio sulla guancia, da parte di mio marito. "Dice Marco che vi vuole bene", gli ho detto. "Lo so", ha risposto. Poi Serena mi ha preso la faccia tra le mani. E abbiamo pianto in silenzio. Poi abbiamo pianto più forte. E poi mi ha detto due cose, che raccontano bene lei chi è. "Perché sei venuta? Perché ti stai prendendo pure questo dolore? Tornatene da Angelo, lo so che ci volete bene. Dai, tornatene da tuo marito, che non è giusto che ti metti a piangere per noi". E ancora: "Lo sai che ci ho parlato con lui, mentre se ne andava via? Gli ho detto che adesso si deve occupare di voi, di Astrid, di Manuel e di tutti. Adesso vi deve portare fuori da lì. Mi ha detto che ci pensa lui adesso".

Così abbiamo anche riso un po' e ci siamo promesse che sua mamma li avrebbe rifatti in Abruzzo, quei maccheroni. E ci saremmo tornati con Angelo e Astrid a mangiarli, seduti composti e comodi davanti al camino, a casa loro, con Antonio sulle ginocchia, un vino buono, la terrazza che da una parte vedi la montagna e dall'altra il mare. C'era la mansarda, se volevamo fermarci a dormire. Altro che la saletta dell'undicesimo piano e i tovaglioli di carta. Un pranzo da signori. Tutta la famiglia unita. E Bernardo, in qualche modo e da qualche parte, insieme a noi. Dentro di noi, sicuro. Incollato al cuore, ai pensieri. Alle domande. Per sempre.